DEEP PURPLE – INFINITE – EAR MUSIC – 2017
Produzione Bob Ezrin
Formazione: Ian Gillan – voce; Steve Morse – chitarra; Roger Glover – basso; Ian Paice – batteria; Don Airey – tastiere
Titoli: 1) Time for bedlam; 2) Hip boots; 3) All I got is you; 4) One night in Vegas; 5) Get me outta here; 6) The surprising; 7) Johnny’s band; 8) On top of the world; 9) Birds of prey; 10) Roadhouse blues
Edizione con bonus DVD di 90 minuti “From here to infinite”
I Deep Purple ci sono ancora, e se davvero questo deve essere un album d’addio hanno fatto le cose per bene, scomodando addirittura un colosso come Bob Ezrin alla produzione, colui che ha dato il tocco decisivo per far passare alla storia capolavori come Destroyer dei Kiss nel 1976 o The Wall dei Pink Floyd nel 1979, ma anche una quantità di altri album storici tra Aerosmith, Alice Cooper, Peter Gabriel, Kula Shaker e potrei continuare per un bel pezzo. Divertente vederlo anche nel dvd dirigere e al bisogno perfino rimproverare la band per fare come dice lui e ottenere i “suoi” Deep Purple… Nulla di epico, magari anche un pò ricamato, però anche questo contribuisce all’effetto-nostalgia. Ma non c’è solo nostalgia in vetrina…
Nonostante l’età increspi la voce di Ian Gillan, nonostante la perdita di Jon Lord e la latitanza di Richie Blackmore, la linfa nuova (neanche nuovissima, ormai) introdotta da un veterano della chitarra come Steve Morse e un certo desiderio di non mollare rendono possibile un disco che, nonostante sia indiscutibile che i migliori Deep Purple sono quelli già visti molti anni fa, fa la sua porca figura e si fa ascoltare senza mai far aggrottare le sopracciglia.
Sorprende un pò la voce robotica che apre il disco con Time for bedlam, piuttosto melodica, ma poi, pur non mancando episodi più tendenti al prog (come d’altronde specificatamente anticipato dalla band in conferenza stampa di presentazione) come The surpring, impreziosita da certe rullate di batteria a trademark Ian Paice, e All I got is you, il timbro Deep Purple non cede mai il passo, e anzi Don Airey alle tastiere sostituisce degnamente il compianto Jon Lord, rispettandone il sound senza plagiarlo del tutto, come avviene ad esempio nell’attacco di Hip boots, chiudi gli occhi e ti sembra di tornare nel 1972.
Abbastanza tirati anche altri pezzi come One night in Vegas, in cui il gruppo si autocita un pò richiamando la propria Lick it up (The battle rages on del 1983), ma tutto il disco regge la botta, in gergo sportivo potremmo dire che perde di misura il confronto con gli album storici.
Fa simpatia poi la chiusura scanzonata di Roadhouse blues, remake del classico dei Doors collocato proprio in chiusura come a salutarci affabilmente con la manina dal finestrino, segno che i Deep Purple si, hanno un nome da rispettare, ma ancora vogliono anche divertirsi.
Se addio davvero sarà, sarà un addio a testa alta!
Alessandro Tozzi