La terrificante tragedia umanitaria che si è abbattuta su Gaza dopo il 7 ottobre 2023 ha origini decisamente più antiche, ed è oltremodo opportuno ricordarlo, ci riesce alla grande per esempio un altro film importante distribuito nelle sale italiane proprio in queste settimane: Tutto quello che resta di te (All That’s Left of You) di Cherien Dabis. Lì, a ridosso di una traccia narrativa emotivamente intensa che attraversa svariati decenni, oscillando tra la ormai perduta Giaffa e la Cisgiordania, viene chiarito con la giusta fermezza cosa abbia significato per quei territori ciò cui viene dato in arabo il nome Nakba («la catastrofe»), ossia l’esodo forzato di circa 700.000 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso del conflitto regionale del 1948 e della guerra civile che lo precedette. L’origine dei mali attuali, sotto diversi punti di vista.
Tornando ora al presente, visione per certi versi complementare a quella citata, assolutamente ineludibile per chiunque abbia a cuore il tema (o per qualunque essere umano, sarebbe forse il caso di dire) è la fruizione sul grande schermo del lungometraggio che più di tutti può testimoniare e rendere tangibile il dramma in questione, nei suoi tratti più rivoltanti e aspri. Trattasi, ovviamente, della discussa (e scopriremo a breve perché) opera cinematografica che ha vinto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ovvero La voce di Hind Rajab (The voice of Hind Rajab), per la regia della stimata cineasta tunisina Kaouther Ben Hania. Riassumiamo brevemente cosa è stato da lei messo in scena. 9 gennaio 2024. I volontari della Mezzaluna Rossa in Cisgiordania ricevono una chiamata d’emergenza: una bambina di sei anni, intrappolata in un’auto a Gaza sotto il fuoco dei blindati israeliani, implora di essere soccorsa. In costante contatto con lei, aggrappati alla sua voce disperata, faranno tutto il possibile per salvarla…. ma si tratta di una storia vera, e le storie vere in quella parte di mondo hanno sovente avuto un epilogo allucinante, in questi ultimi anni. Vi lasciamo soltanto immaginare, al momento, come possa essersi conclusa qui la raccapricciante vicenda.

La grandezza o l’aspetto vulnerabile del film, a seconda dei punti di vista, è proprio il fatto che l’autentica registrazione telefonica della sventurata Hind Rajab caduta coi suoi in una trappola mortale si sovrappone alla già tesa, vibrante parte di fiction, in cui vengono ricostruite le concitate discussioni interne al call center dei soccorritori, laddove la volontà di aiutare la bambina bloccata in un’auto crivellata dai proiettili dei sionisti e circondata dai cadaveri dei propri famigliari è pari solamente al timore, pienamente giustificato in quanto accaduto più volte, che gli spietati militari israeliani possano poi aprire il fuoco pure contro l’ambulanza in arrivo. La realtà, come avviene anche nel semi-documentaristico epilogo, fa quindi prepotentemente irruzione in scene recitate comunque da tutti gli interpreti in modo estremamente rispettoso, per quanto appassionato. E questo modus operandi secondo noi è un bene. Ma non per tutti, evidentemente…

Se il film meritatamente premiato a Venezia è stato forse osteggiato da certe testate (e dalle loro asservite penne) più per motivi ideologici, “di scuderia”, vedi il caso del tristissimo, grezzo, di fatto insensibile articolo pubblicato da Mariarosa Mancuso su Il Foglio, con altrettanta mestizia abbiamo successivamente intercettato non poche recensioni che, col tipico taglio nazi-snob che esibiscono ormai da parecchi anni taluni intellettuali del nostro paese, finiscono per rinnegare come non congrua la scelta di giustapporre nel film scene recitate e documenti reali. Accostando persino, in qualche caso, tale scelta al malcostume televisivo imperante. Non sono soltanto superflue “questioni di lana caprina”, a nostro avviso, ma chiaro indice del fatto che mal digerite lezioni di semiotica possano in alcuni liquefare totalmente l’empatia così naturale e spontanea che gran parte del pubblico ha provato, spingendo pertanto tali soggetti a mal giudicare un approccio narrativo che la bravissima Kaouther Ben Hania ha saputo vieppiù dosare con apprezzabile contegno e senso della misura.

Per “stemperare” ulteriormente la polemica, congedandoci inoltre con qualche motto salace, vorremmo citare in chiusura un estratto di Cinema e Potere, l’illuminante saggio di Federico Greco edito di recente, in cui si discute un abbaglio critico datato ma dalla matrice per noi simile: “Riguardo a Kapò è nota la polemica generata da un articolo sui Cahiers du cinéma di Jacques Rivette – esponente della Nouvelle Vague francese. Rivette criticò pesantemente un’inquadratura del film, in cui Pontecorvo fa un carrello verso Teresa, una deportata che si suicida fulminata dai fili elettrificati, perché secondo lui quel movimento di macchina così accurato, così ben composto, quasi pornografico, in una parola ‘spettacolarizzante’, è riprovevole e amorale. Una polemica che creò non pochi problemi al film e al regista, come solo i francesi sanno fare quando si tratta di rompere gratuitamente le palle agli italiani.”.
Ecco, se Federico Greco non si fa scrupolo, giustamente, di ironizzare su una pedanteria nell’analisi del linguaggio filmico di colui che resta comunque uno dei pilastri della cultura cinematografica francese, ancor meno ce ne facciamo noi nel controbattere su La voce di Hind Rajab alle recriminazioni di una (più o meno) giovane compagine critica nostrana, composta talora da autentici “talebani” dell’informazione, assuefatti alle più intransigenti (e talora inopportune) riflessioni semiologiche.

