LENNY – Ipotesi di un omicidio

Lenny - Ipotesi di un omicidio
Spettacolo di Giuseppe Pavia
Lenny – Ipotesi di un omicidio

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LENNY – Ipotesi di un omicidio

di Giuseppe Pavia

con

Antonello Avallone

Riccardo Bàrbera Giulia Di Quilio Giuseppe Renzo

e con Francesca Cati e Flaminia Fegarotti

Regia Antonello Avallone

scene Alessandro Chiti

costumi Red Bodò

scenotecnica Scenario di A. Amodio

disegno luci Manuel Molinu

Si accendono le luci sul palcoscenico, è il 1966 e viene rinvenuto il cadavere del comico americano Lenny Bruce (Antonello Avallone) che da anni, a più riprese, si scontra con la censura statunitense, oltraggiata dal linguaggio usato durante i suoi spettacoli e dalle scabrose tematiche affrontate. Quella di Lenny non è stata un’esistenza facile: quando il racconto riparte dal 1951, lo troviamo già nei guai con le sue dipendenze e infatuato della spogliarellista Honey Harlow (l’affascinante Giulia Di Quilio). I due sono persone molto diverse fra loro, ma hanno entrambi una condotta caotica e ribelle, uno stile di vita disordinato, una sorta di affinità elettiva che fa scattare la scintilla che li porta rapidamente al matrimonio, nonostante le perplessità degli amici e in particolare dell’agente di Lenny, Harty Silver (Giuseppe Renzo). La coppia comincia ad esibirsi assieme, ma la loro è una relazione che va avanti tra alti e bassi, disturbata dagli eccessi, dalle probabili tendenze omosessuali della donna e dai sempre maggiori problemi incontrati dal comico. Malgrado la sua crescente popolarità, infatti, viene preso di mira dal procuratore distrettuale di Manhattan, Frank Hogan (Riccardo Bàrbera), che cerca di convincerlo inutilmente a cambiare registro.  Il divorzio con Honey, il desiderio di non piegarsi al perbenismo borghese, la lotta contro il conformismo, contro le elite e infine contro l’interventismo americano in Vietnam, mettono Lenny su una vera e propria autostrada per l’inferno, disseminata da problemi costanti con la legge, eccessi e droga, fino al tragico epilogo che lo vede morire, a soli quarant’anni, per una apparente overdose.

Scritto da Giuseppe Pavia, per la regia dello stesso Avallone, lo spettacolo ha fatto il suo debutto nazionale al teatro Ghione di Roma lo scorso 8 ottobre. Non è semplice affrontare un personaggio complesso come Lenny Bruce, il cui vero nome, di origine ebraica, era  Leonard Alfred Schneider: la sua tormentata parabola è anche un racconto tortuoso, probabilmente inscindibile dal contesto storico in cui ha vissuto, dove forti spinte spinte sociali premevano per un deciso cambiamento politico. Una storia quindi emblematica di un’epoca, che non a caso ha ispirato autori, artisti e intellettuali affascinati dalla forza sovversiva della battaglia per la libertà di parola: su tutti, la pièce teatrale di Julian Barry andata in scena a Broadway nel 1971 e alla quale, nel 1974, si è ispirato Bob Fosse per il suo film “Lenny”, con Dustin Hoffman nella parte principale.

Lenny – Ipotesi di un omicidio

Visto dunque il lungo lasso di tempo da affrontare, dal 1951 al 1966, il testo di Pavia si svolge per episodi, per scene ambientate anche in momenti lontani l’uno dall’altro, frammenti esistenziali in cui assistiamo ad istanti drammatici e punti focali della narrazione. Da questi veniamo a sapere cosa è accaduto nel frattempo e come è cambiato il rapporto tra i personaggi: è così che apprendiamo fatti che, seppur importanti, non vengono rappresentati, quali l’incidente d’auto che vide coinvolti Lenny e Honey o gli arresti e le successive scarcerazioni subiti sempre più frequentemente da Lenny. La scelta è precisa, concentrata su dialoghi intensi, intimistici, catturati dietro le quinte, fra i camerini o in qualche ufficio semibuio. E’ la rappresentazione di tragiche dinamiche umane, di quanto accade quando le luci del palcoscenico si spengono e l’eco degli applausi del pubblico svanisce. A punteggiare questi passaggi narrativi ci sono i più famosi monologhi di Lenny Bruce, interpretati ottimamente dal sempre efficace Antonello Avallone, autentico magnete dell’attenzione della platea, e le ipnotiche esibizioni di Giulia di Quilio, professionista dell’arte del burlesque e a suo agio nei bellissimi abiti della costumista Red Bodò. A completare il cast Flaminia Fegarotti, nei panni di una sensuale cantante (bella la sua interpretazione della famosa “These Boots Are Made For Walkin’ ”), e Francesca Cati, la presentatrice di ognuna delle esibizioni. A incorniciare il tutto le efficaci scenografie girevoli che, formando la grande parola “Lenny”, di volta in volta diventano un luogo diverso.
Buonissimo dunque lo sforzo produttivo e l’impatto visivo di uno spettacolo che sarà di nuovo in scena dal 13 al 23 novembre prossimo al teatro Nino Manfredi di Ostia. Pur partendo da un racconto biografico, questo è un testo che vuole ricordare l’insopprimibile forza della parola e l’importanza del coraggio di sfidare le consuetudini di un ordine costituito il quale, spesso, si regge anche su rigide convenzioni e ben poco gradisce chi osa metterlo in discussione, soprattutto se fa della risata la sua arma più affilata.

A silenziare Lenny Bruce è stata ufficialmente la sua condotta sempre al limite, un’esistenza bruciata in modo dissennato fra le droghe, ma forse la verità è un’altra e già dal titolo gli autori qui non fanno mistero delle loro convinzioni. Comunque sia andata, quando si spegne una voce come la sua, una che vuole smuovere e spronare le coscienze intorpidite, a perderci siamo sempre un po’ tutti. 

Massimo Brigandì

Le foto sono di Monica Irma Ricci

Lenny – Ipotesi di un omicidio
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