Erano belli e sorridenti mentre sventolavano i tre Golden Globe vinti lo scorso 10 gennaio a Hollywood. Poi, cinque giorni dopo, hanno passeggiato sul tappeto rosso della Casa del Cinema di Roma, accompagnati dagli esuberanti scoppi d’entusiasmo dei loro fan. E ora si accingono ad attraversare altri due red carpet, ben più importanti: quello degli Oscar (12 candidature) e quello dei premi Bafta di febbraio (9 nomination).
Il regista Alejandro González Iñárritu e l’attore Leonardo Di Caprio sono ancora in tour mondiale per presentare l’ultima fatica cinematografica The Revenant – Il Redivivo, già nei cinema italiani dalla metà del mese. Il film ha ottenuto ottime valutazioni dalla stampa internazionale che ha stilato recensioni contenenti più o meno gli stessi aggettivi: “poetico”, “magnifico”, “brutale”, “western”.
La scelta degli aggettivi è probabilmente giusta, ad eccezione di “western” su cui il regista Iñárritu ci tiene a smentire: “Non è un film che parla del West”. La storia in effetti si sviluppa molto prima della nascita del selvaggio West. La trama è tratta dal libro omonimo di Michael Punke e racconta la storia vera di Hugh Glass, cacciatore di pelli che fu attaccato da un’orsa durante una spedizione agli inizi dell’Ottocento e poi abbandonato dai compagni che lo credevano prossimo alla morte. Hugh Glass sopravvive nei territori selvaggi dei nativi americani e la sua storia diventa leggenda.
“Ho dovuto reperire molte informazioni su quel periodo storico – racconta il regista – e ho scoperto che il maggior prodotto di esportazione americano, all’epoca, erano le pelli. Tutti si prodigavano nella caccia: tagliavano ogni albero, uccidevano ogni animale e impattarono fortemente sulle risorse delle comunità indigene. Erano come accecati”. Una follia che ha fatto pensare ad attore e regista di trovarsi davanti alla “nascita del capitalismo, per come lo conosciamo oggi”. Non sappiamo dire se Hugh Glass sia stato il primo capitalista della storia moderna, quel che è certo è che l’uomo Hugh Glass, interpretato da Leonardo Di Caprio, non esiste più.
Iñárritu si presenta al mondo con una storia tutta diversa rispetto a quel piccolo capolavoro che è Birdman, film con cui ha vinto quattro Oscar nell’edizione 2015 (miglior film, regia, sceneggiatura originale e fotografia). Ed è forse inopportuno paragonare due pellicole diversissime per tecnica, trama e ambizione.
Se Birdman si svolge quasi tutto all’interno di un teatro di Broadway, The Revenant è girato al 94% in esterna. Iñárritu scrive e dirige Birdman per raccontare il dramma dell’uomo moderno che si eleva a superuomo diventando un supereroe. Il film ha cambiato il modo di raccontare la modernità, la fama e soprattutto i supereroi, tirando una stilettata acida alla produzione hollywoodiana che negli ultimi anni ha bombardato il pubblico con le storie degli Ant-Man, dei Wolverine, degli X-Men, di Wolverine con gli X-Men, eccetera.
L’uomo Redivivo è un altro tipo di supereroe: è un primitivo, è la forza della natura. Risulta pertanto più semplice identificarsi nell’uomo-Birdman che non nel Redivivo. Ma Iñárritu ha trovato ben altri modi per coinvolgere gli spettatori.
Si sa che il regista ama mettere su pellicola i suoi libri preferiti, cioè i classici dell’esistenzialismo. Così prova ricreare una condizione esistenziale e il primo mezzo che sfrutta è il paesaggio. La natura e il suo pericoloso evolversi, cioè il cambiamento climatico, sono il cuore pulsante dell’intero lavoro.
Il tema è molto caro sia al regista che allo stesso Di Caprio, da sempre impegnato nelle questioni ambientali. Basti pensare che nel 2014 l’attore ha donato, attraverso la sua fondazione, tre milioni di dollari per la lotta alla pesca selvaggia e altri tre milioni per la protezione delle tigri in Nepal. Nello stesso anno è andato alle Nazioni Unite e ha dichiarato che il cambiamento climatico è strettamente connesso con i diritti umani, giacché molte popolazioni sono costrette a spostarsi a causa dei disastri ambientali. Se volessimo soffermarci alla sola Italia, vediamo come i cittadini di molte regioni combattono contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua o del suolo, se agiscono da consumatori prediligono prodotti biologici e a zero impatto ambientale. All’intero dei tg sono aumentate le notizie a tema ambientale, Papa Francesco ha dedicato alla natura un’intera enciclica, e cresce la preoccupazione per fenomeni metereologi distruttivi che, gli esperti dicono, saranno sempre più frequenti. Iñárritu sta dunque proponendo un tema avendo davanti un pubblico estremamente ricettivo.
Lo stesso regista e troupe al seguito hanno avuto a che fare con il cambiamento climatico. Inizialmente le riprese del film dovevano svolgersi principalmente in Canada, ma la produzione è stata costretta a cambiare programma. Spiega Di Caprio: “spesso immaginavamo di poter girare un’intera sequenza sotto la neve e invece scoprivamo che la neve era scomparsa. Quindi siamo dovuti arrivare a sud dell’Argentina”, fra gli incredibili scenari del Perito Moreno, uno dei pochi ghiacciai che ancora resiste al surriscaldamento globale. Una location bella e mortale che ha spinto alcuni membri dello staff ad abbandonare il set a causa delle estreme condizioni di lavoro.
Per raggiungere i luoghi ameni scelti da Iñárritu la troupe doveva infatti affrontare due-tre ore di viaggio all’andata e al ritorno, con i mezzi contenenti le attrezzature che puntualmente sprofondavano nella neve rallentando la corsa. Una sfacchinata che permetteva di avere solo un’ora e mezza per poter girare, perché sia il regista che il direttore della fotografia Lubezki avevano optato per la luce naturale, e in quei luoghi alle tre del pomeriggio è già buio. Con le temperature che raggiungevano i 40 gradi sotto lo zero, i monitor si bloccavano, gli ingranaggi andavano in palla e Leonardo Di Caprio ha rischiato più volte l’ipotermia, oltre a procurarsi una bronchite che gli ha permesso di interpretare sul set una verissima tosse. Oltre alla fatica, i costi, schizzati oltre i 135milioni di dollari.
“Sì immaginavamo che non sarebbe stato semplice – racconta Di Caprio – ma sono convinto che nessuno di quelli che ha firmato per lavorare nel film avesse veramente idea a cosa andavamo incontro”. E questo perché l’idea, in realtà, non c’era. O meglio: Iñárritu sapeva perfettamente cosa intendeva ricreare, ma non sapeva ancora come farlo. La sua convinzione stava nel fatto che solo una volta raggiunti quei luoghi selvaggi avrebbe capito come realizzare le scene. Dunque Iñárritu fa spostare centinaia di persone, con una tonnellata di attrezzature, a temperature sotto lo zero e alla modica cifra di 135milioni di dollari, sulla scia del “poi si vede”.
Concessioni che si fanno solo a un regista da premio Oscar, ma Iñárritu ha ragione. Quei luoghi immacolati e selvaggi hanno la capacità di suscitare emozioni uniche. E se non è il regista il primo a provarle, sarà anche difficile comunicarle. Una scommessa andata a buon fine e che ha spinto Di Caprio a parlare di “cinema sperimentale”. Occorre dire che Di Caprio utilizza le innumerevoli interviste che sta concedendo in giro per il mondo per pompare il film con una pubblicità che farebbe invidia a uno spot di merendine (il suo obbiettivo, si sa, è l’Oscar), ma una certa dose di sperimentazione probabilmente c’è. O quantomeno un certo gusto per l’improvvisazione che si mescola, per paradosso, ad una programmazione studiata al millimetro.
Sono infatti costruite nel dettaglio alcune delle scene memorabili di Revenant, come l’attacco dell’orsa contro Leonardo Di Caprio o la battaglia fra la tribù degli Arikara e i cacciatori di pelli che si vede in apertura del film. Il conflitto è ripreso dall’interno con un unico movimento di macchina, una follia cinematografica che ha richiesto tre mesi di prove per portare a casa tre minuti di girato. L’obbiettivo, però, è raggiunto: lo spettatore è dentro la battaglia, circondato dai protagonisti. Brutale ed estremamente realistico è invece l’attacco dell’orsa, sebbene l’animale sia ovviamente un prodotto degli effetti speciali. Per rendere ancor più vero quel che accade, Iñárritu usa un semplice trucco: fa volare una mosca. Un’insistente e fastidiosissima mosca che ti ronza nell’orecchio nei momenti meno opportuni, finché non la scacci via con un gesto di stizza. Una mosca che ronza, il perfetto scricchiolio della neve sotto i passi degli attori: tutto il sonoro del film è pensato per creare una sorta di effetto 3D. Ancora una volta, il pubblico è circondato.
La regia, il sonoro e la natura, con la sua placida potenza, concorrono nella creazione di un ecosistema. Dice Iñárritu che “quando sei in quei luoghi selvaggi, capisci che non puoi più dominare la natura, puoi solo farne parte”. Così ogni soggetto si muove dentro i ruoli e le regole che Madre Natura ha stabilito. La scena dell’orsa appare estremamente realistica perché l’animale attacca per proteggere i suoi cuccioli, non perché sia cattiva di per sé. Allo stesso modo, l’antagonista John Fitzgerald, interpretato da un grandioso Tom Hardy, non è semplicemente “il cattivo” del film, è solo il prodotto di un’esperienza. E Leonardo Di Caprio, che protegge il figlio come farebbe un’orsa con la sua cucciolata, si trova ad essere inseguito da un altro padre, il capo della tribù guerriera degli Arikara, anche lui alla ricerca della figlia.
Anche per questo, e nonostante la brutalità di alcune scene, il film regala al pubblico uno stato di calma, una sorta di serena accettazione delle regole che compongono un ecosistema. E lo invita a scoprire le infinite corrispondences che legano questo film.