Non sono ancora iniziate le premiazioni che già le polemiche impazzano. La consegna degli Oscar 2016, che quest’anno si terrà il 28 febbraio al solito Dolby Theater di Los Angeles, ha già incassato i primi boicottaggi, quelli di Spike Lee e Will Smith. Il motivo? L’hanno chiamato “White Academy”.
La polemica partita sui social con gli ashtag #OscarSoWhite e #OscarStillSoWhite evidenzia come per il secondo anno di fila la Academy abbia inserito in nomination solo attori, registi e tecnici bianchi. Nessuna candidatura per gli afroamericani o per gli artisti di origine ispanica. La storia si ripete come nel 2015, ma a fare la differenza quest’anno è l’ampia possibilità di scelta che la Academy aveva a disposizione, con produzioni di grande successo incarnate da attori e registi afroamericani.
È il caso di Straight Outta Compton di F. Gary Gray, pellicola che racconta la storia (vera) della band hip hop N.W.A. Così come ha destato scalpore la mancata nomination ad attore non protagonista per Idris Elba, uno degli interpreti di Beast of no Nation. O che la sola candidatura per il film Creed – Nato per Combattere, spin off della saga di Rocky Balboa, sia andata a l’unico attore bianco presente in scena, Sylvester Stallone.
Produzioni che hanno registrato un ottimo successo di pubblico, superando i 100 milioni di dollari di incassi nei botteghini. La presenza totalizzante dei bianchi nella cerimonia degli Oscar non è infatti una mera questione culturale, o di rappresentanza. Ma è anche, o soprattutto, economica. È noto infatti che i film premiati o nominati facciano lievitare gli incassi dei box office e la distribuzione, sia nei cinema che per l’home video.
Già nel 2012 Business Insider aveva calcolato che una candidatura agli Oscar fa aumentare gli incassi per 20 milioni di dollari, a cui si aggiungono dai 14 ai 15 milioni se si ottiene la statuetta per miglior film e “solo” 5 milioni di dollari se la pellicola si ferma alla nomination. Aumentano anche i costi dei diritti tv e il cachet delle star, che dall’ottenimento dell’Oscar possono guadagnare il 20% in più in busta paga. Non solo buoni propositi, insomma.
Il giro d’affari che le statuette trascinano con sé spingono le case di produzione ad investire altrettanti milioni in campagne pubblicitarie, nella speranza che l’investimento torni indietro, se possibile triplicato. Così è stato fatto, ad esempio, per Straight Outta Compton, la cui campagna di persuasione è iniziata ad agosto dello scorso anno, più che in tempo per convincere i membri dell’Academy a metterlo in lista. Invece pare che non siano valsi né la bravura degli attori – tutti afroamericani – né l’occhio della regia, o gli incassi del box office e financo lo sforzo economico della produzione.
Per tutta questa serie di motivi, la scelta in total white degli Oscar 2016 sembra non avere giustificazioni. Almeno agli occhi di chi ha deciso di non partecipare alla premiazione del 28 febbraio, tra cui spiccano i nomi di George Clooney, di Mark Ruffalo e di Spike Lee, il più duro nel contestare le scelte dell’Academy. “ Possiamo anche vincere un Oscar prima o poi – afferma un furioso Spike Lee – ma un Oscar non cambierà il modo in cui Hollywood gestisce il suo business. E non sto parlando delle star di Hollywood. Sto parlando dei dirigenti. Noi (afroamericani, ndr) non siamo in quella stanza”. La favolosa stanza dei bottoni, là dove si maneggiano i quattrini. È a quella stanza che fa riferimento Spike Lee. Ed ecco che il dito puntato sull’Academy si sposta ad indicare l’industria cinematografica americana nel suo complesso.
Partiamo dall’Academy. Il gotha che decide le nomination e i vincitori della statuetta più ambita del mondo è la Academy of Motion Picture Arts and Sciences, meglio conosciuta come AMPAS o semplicemente Academy. È composta da circa 6mila membri, la cui identità è tenuta in sordina, o almeno così dicono. L’AMPAS infatti non ha mai fornito l’elenco completo dei suoi membri, il che dovrebbe servire a non far cadere in tentazione i giudici, sempre braccati dalle case di produzione. In realtà i due mondi sono estremamente connessi: sia perché i produttori sono ampiamente rappresentati in una delle 17 branche che compongono la Academy (assieme ad attori, registi, truccatori, ecc); sia perché le case di produzione finanziano direttamente l’AMPAS nei progetti che quest’ultima fa nel corso dell’anno, come per la creazione del software di post-produzione Aces, sponsorizzato, tra gli altri, da Warner Bros, Walt Disney e Kodak.
Un’inchiesta del Los Angeles Times ha rivelato la composizione dei membri dell’Academy. Secondo quanto riportato dal quotidiano, il 94% dei votanti è di origine caucasica, mentre solo il 2% è afroamericano. Gli ispanici restano sotto il 2% e non va bene neppure per le donne, schiacciate sotto il 77% dei componenti maschili. L’età media è di 62 anni. Il profilo del votante-tipo è dunque quello dell’anziano uomo bianco.
I giornalisti John Horn, Doug Smith e Nicole Sperling hanno intervistato 5.100 membri su più di 6mila che compongono la Academy, il cui mandato è a vita. Talmente a vita che include persone che ormai non lavorano più nel cinema da anni (fra i votanti ci sono persino una suora e il proprietario di una libreria). L’inchiesta ha dunque confermato i sospetti di chi accusa l’AMPAS di effettuare discriminazioni razziali e di genere. Ma non solo. Sempre su LA Times si legge un’altra lamentela: pare che alla Sony Picture siano convinti che il film The Social Network, da loro prodotto, abbia perso la corsa agli Oscar perché il racconto della nascita di Facebook ha poca presa su un pubblico di ultrasessantenni, come sono i componenti dell’Academy. Il ragionamento vale anche per Streight Outta Compton: forse gli anziani membri dell’AMPAS si sentono poco coinvolti da un film che narra le vicende di tre ragazzini che cantano hip hop.
Così, tra dicerie e accuse dirette, il gotha del cinema americano diventa improvvisamente un circolino di vecchi ottusi, decisamente poco inclini al cambiamento. Sono imputati di non rappresentare più la realtà, tantomeno quella dei consumatori. Sul mercato americano, infatti, il 46% dei biglietti venduti al cinema è acquistato dalle minoranze etniche.
La presidente dell’Academy Cheryl Boone Isaacs, peraltro donna e afroamericana, ha l’arduo compito di difendere la sua istituzione: “Mentre celebriamo altissimi meriti, mi sento addolorata e frustrata dalla mancanza di inclusione. Si tratta di un difficile ma importante argomento di conversazione, ed è tempo di grandi cambiamenti”. In realtà un tentativo di cambiamento era stato fatto. Nel giugno scorso la Isaacs aveva invitato 322 nuovi membri a far parte dei componenti di AMPAS, nella speranza di rinnovare un po’ il parco votanti. A novembre ha fatto partire il programma A2020 per promuovere l’inclusione all’interno del suo staff e ha chiamato il comico afroamericano Chris Rock per presentare la cerimonia di premiazione che si terrà il prossimo 28 febbraio. Iniziative giudicate timide dai più pessimisti, considerato che la produzione cinematografica dei prossimi anni è già stata ideata, scritta e in certi casi addirittura girata, giacché sono questi i tempi di realizzazione di un film. Il cambiamento, dunque, non potrà essere così repentino come si spera.
Né sarà semplice modificare l’intero andazzo dell’industria cinematografica americana, rappresentata, neanche tanto equamente, dai 17 comparti che compongono la scintillante accademia. Phil Alden Robinson, membro del board di AMPAS, ha dichiarato che “è certamente necessario cambiare, ma partiamo con il freno a mano tirato. Se l’industria nel suo insieme non sta facendo un ottimo lavoro nell’aprire le fila, è molto difficile per noi diversificare i nostri membri”. La strada è tutta in salita.