Tra il 16 e il 26 giugno 2024 si è svolta a Roma una rassegna teatrale, ribattezzata “Il Teatro di Giuseppe Fava”, che testimonia innanzitutto la validità delle proposte culturali di Metis Teatro, sovente mediate dalla volontà della regista Alessia Oteri di permettere al pubblico di familiarizzare con drammaturgie non sufficientemente note in Italia, sebbene di alto livello.
Grazie a quest’attività generosa e incessante ci si è potuti innamorare, per esempio, del rumeno Matei Vișniec e del suo teatro così ricco sotto il profilo esistenziale, umoristico e socio-politico. Con la corposa antologia messa in scena a giugno, un fitto calendario di appuntamenti orchestrato tra Teatro Marconi e Teatro Villa Lazzaroni, si è invece propiziata la riscoperta di un intellettuale siciliano dalla personalità assai spiccata, apprezzabilissima sia sul fronte giornalistico che su quello della creazione artistica, la cui vita s’era purtroppo interrotta prematuramente nel gennaio 1984 per un vile agguato mafioso. Assieme a quella di Peppino Impastato la parabola di Giuseppe Fava detto “Pippo” è stata probabilmente una delle più importanti, sul piano culturale, tra quelle brutalmente interrotte dall’agire criminale di Cosa Nostra.
Giornalista coraggiosamente schierato e impegnato a 360° nel testimoniare e rappresentare la società siciliana del Dopoguerra, compresi gli aspetti più scabrosi, nocivi, censurabili, di origine malavitosa o dettati dalla cattiva amministrazione, Pippo Fava ha dato alla luce sorprendenti testi teatrali, alcuni dei quali sono stati rappresentati nel corso della rassegna.
La rappresentazione cui abbiamo assistito il 18 giugno scorso al Teatro Marconi di Roma ha però, in parte, un’origine diversa: quasi un “biopic” in forma teatrale, Pagine deriva infatti da “Prima che la notte” di Claudio Fava e Michele Gambino, così da assemblare articoli di denuncia, interviste, riflessioni e brevi frammenti di opere comunque attinenti all’attività costante e ostinata dell’autore. Fino al giorno della sua morte. Poiché è proprio quella data tanto infausta a costituire qui un precario orizzonte degli eventi.
“Dalla centoventiquattro esce uno con una faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende dall’angolo della bocca, e ride. E quello è Pippo Fava”. Efficace quanto una tavola di Andrea Pazienza, tale descrizione ci accompagna in quel lungo percorso che ci farà conoscere meglio il personaggio, ritratto attraverso mille sfumature sin dagli anni dell’adolescenza in una Sicilia devastata dalla feroce, distruttiva risalita degli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Poi la vocazione giornalistica, le battaglie di impegno civile portate avanti attraverso stampa e teatro, l’amara constatazione di un’intera regione italiana abbandonata a se stessa e a disservizi perenni, la severa e persistente denuncia delle gravi responsabilità di mafiosi, imprenditori corrotti e politicanti collusi. Il carattere del personaggio un po’ alla volta esce fuori. Ma non da un punto di vista univoco, “totalizzante”, perché ciò che Metis Teatro porta avanti non ha alcunché di precodificato, ordinario; tramite la programmatica scomposizione dei ruoli e dell’azione scenica, promuove semmai una visione sfaccettata, corale, con tanti personaggi evocati in scena, affinché ciascuno di loro sottoponga al giudizio del pubblico la propria testimonianza o comunque il frammento di realtà che lo riguarda più da vicino. In certi momenti si ha così la sensazione che sia la Sicilia intera a parlare.
Vista la complessità drammaturgica degli incastri, dei piani temporali, rispetto ad altri spettacoli del così energico collettivo qualche piccolo intoppo lo si è percepito. Battute pronunciate con un po’ di affanno, azioni più difficili da sostenere sul palco come l’iperbolica partita di calcetto (che a quanto pare era uno degli svaghi preferiti dell’intellettuale siciliano, altrimenti dedito al lavoro e all’impegno civile in modo quasi sfiancante), resa anch’essa allusiva del quadro sociale riscontrabile nella Catania di quegli anni.
Minuscole stonature, in un ingranaggio che appare invece sufficientemente oliato, vitale, dinamico, tale quindi da trovare sempre attraverso la parola, attraverso qualche azione o presenza simbolica, la chiave giusta per (ri)affermare sia il coraggio dell’uomo Pippo Fava, sia un modo di fare giornalismo e cultura in cui mestiere, etica e autonomia di pensiero si muovevano all’unisono. Cosa sempre più rara, anche nell’Italia di oggi.