Proiettato lunedì 16 settembre nella suggestiva cornice dell’Institut Français Centre Saint-Louis, quale evento di apertura (assieme a una variegata, qualitativamente valida selezione di corti) della terza edizione di Emisferi CineFest, ci era stato presentato così Twin Fences di Yana Osman (Russia, Ucraina, Georgia, Germania 2023, 97′), documentario costruito a partire da un soggetto alquanto bizzarro: «Un viaggio intimo e personale della regista attraverso le proprie recinzioni materiali e metaforiche e attraverso le tre terre d’origine: Afghanistan, Russia e Ucraina, nel tentativo di rispondere alla domanda: “Chi è che crea recinzioni fra gli esseri umani?”»
Epicentro tematico (e singolare MacGuffin) del film è pertanto un particolare tipo di recinzione, dal disegno romboidale, progettato alcuni decenni fa da un architetto sovietico e diventato ben presto popolarissimo nei paesi posti oltre la “cortina di ferro”, a partire proprio dalla Russia. Va da sé che l’indagine su questa struttura, a suo modo iconica, è per la giovane cineasta principalmente un pretesto per parlare di barriere visibili e invisibili, per ridiscutere una (personale e collettiva) geografia dell’anima; fattore ancora più drammatico, questo, se si considera che durante la lavorazione dell’eccentrico documentario le persistenti tensioni tra Russia e Ucraina sono sfociate in guerra aperta.
Dal personale al politico, dal valore estetico a quello sociale: molteplici sono i percorsi che compongono la labirintica costruzione di Twin Fences, donandogli autenticità e implicazioni a tratti geniali. Centrale è naturalmente la posizione dell’autrice, non a caso così spesso in scena, a esplorare paesaggi post-sovietici come pure a raccontare vicende assai personali, che assumono però di sovente un tono emblematico, rappresentativo di un’epoca (e del suo inesorabile declino). Lo avevamo accennato all’inizio, le stesse origini famigliari di Yana Osman si perdono tra Russia e Ucraina, con un tocco “esotico” però a movimentare il tutto: la provenienza afgana del padre e la difficile accettazione della sua presenza nel nuovo contesto; qualcosa che avrà anche un esito tragico, oscuro; il che ci racconta poi, di sguincio, il paradosso di un’Unione Sovietica che prima del tracollo dava orgogliosamente asilo, anche per vincoli ideologici, a studenti e ad altre figure provenienti da paesi africani o asiatici, senza però che costoro si amalgamassero completamente nel tessuto sociale di una nazione di fatto multietnica, ma slava per tradizione. Un riflesso di tale complessa situazione lo avevamo avuto di recente attraverso un altro documentario, Happy di Ivan Rodin, selezionato per la seconda edizione di Indiecinema Film Festival: al centro del racconto vi è qui la singolare biografia di Bangis Schastlivyi (il cui nome proprio è infatti traducibile come “Happy”, “felice”), artista di colore nato in URSS poiché figlio illegittimo di un’influente diplomatico guineano e di una donna russa di origini più modeste.
Con tutte queste istanze in gioco, particolarmente emozionante nel caso di Twin Fences è stato poter dialogare con la regista, tramite videochiamata, nel “virtuale” incontro col pubblico moderato con maestria dal presentatore della serata Giuseppe De Cicco. Abbiamo infatti appreso direttamente da lei come il film, il cui valore artistico ci è parso evidente, non sia stato ancora proiettato né in Russia né in Ucraina e sia stato ostracizzato finora da molteplici festival, sempre per motivi politici e “di opportunità”. La cosa non deve sorprendere. Nei suoi riferimenti all’attualità Twin Fences denuncia la chiusura dei vari mondi, tenta di costruire ponti, di evidenziare legami, laddove i governi dei paesi in guerra (e quelli delle nazioni che li spingono a guerreggiare, aggiungiamo noialtri) vogliono solo muri. Barriere. “Recinzioni”, come quella posta ironicamente quale obbiettivo di una ricerca documentaria, che finisce poi per divagare in modo straniante, spiazzante, allegramente “situazionista”. Giacché, oltre allo stile eclettico, libero e improntato a un forte spirito critico, del bel lavoro di Yana Osman abbiamo apprezzato anche la vena ironica, che si tinge a sprazzi di leggiadra auto-ironia; ad esempio quando la cineasta, giocando sulla pronuncia, si trova ad accostare il cognome suo e del padre a quello del celebre Barone Haussmann, autore in Francia di quegli interventi architettonici e urbanistici che nell’800 cambiarono radicalmente la percezione di Parigi.