Aspettando Godot

Aspettando la magia del teatro

Aspettando Godot
di Samuel Beckett
regia Claudio Boccaccini
con Pietro De Silva (Vladimiro), Felice della Corte (Estragone), Roberto Della Casa (Lucky), Riccardo Barbera (Pozzo), Francesca Cannizzo (ragazzo)
musiche Massimiliano Pace
luci Alessandro Pezza
costumi Lucia Mirabile
aiuto regia Marzia Verdecchi
montaggio video David Melani

Nell’ambito del festival T.E.I.M.T., primo festival dedicato al movie theatre e proposto in streaming, nato dalla collaborazione tra Ars Millennia production (di Rodolfo Martinelli Carraresi ed Isabel Russinova, ideatrice e promotrice del progetto) e la piattaforma Indiecinema, è stato presentato anche il classico Aspettando Godot, capolavoro di Samuel Beckett e testo simbolo del teatro dell’assurdo.

Aspettare Godot ha assunto il significato di aspettare qualcosa che non accadrà mai, ma nel contempo non far nulla per farlo accadere. È un muoversi senza muoversi, un’attesa senza fine in cui, per ‘ammazzare il tempo’, si pensa anche ad ammazzarsi in senso letterale: il tema del suicidio, impiccandosi all’albero, unico elemento scenografico sul palco, ricorre nei due protagonisti, intenti in dialoghi surreali e privi di senso che nell’interpretazione di Pietro De Silva e Felice della Corte assumono i colori di una comicità graffiante ed irresistibile.

Nella regia di Claudio Boccaccini, Aspettando Godot si concentra in un unico atto, che rimarca ancor di più la ciclicità del tempo che passa pur rimanendo immobile, mente una scenografia essenziale ma suggestiva esalta il carattere onirico del testo, dallo sfondo che si colora a scandire il passaggio dell’alba al tramonto all’inquietante salice spoglio sotto il quale buste di spazzatura fungono da giaciglio per i due compagni di un viaggio senza meta.

Vladimiro (Pietro De Silva) ed Estragone (Felice della Corte), nell’immaginario boccacciniano, hanno le sembianze di due clochard chapliniani: sporchi, affamati, con le scarpe troppo strette e i pantaloni sorretti da una corda. Il loro è un legame tra anime pure, buffo, infantile nel suo dispiegarsi eppure irrinunciabile; come irrinunciabile è quello che tiene insieme gli altri due personaggi che irrompono sulla scena, Pozzo (uno strepitoso Riccardo Barbera) e il suo servitore Lucky (Roberto Della Casa). Mentre i quattro si trovano, pur nella diversità, ad interagire su piani surrealmente simili, alieno a tutto ciò è il ragazzino, che arriva e se ne va senza partecipare all’esistenzialismo dei personaggi in scena; il suo compito è solo quello di avvertire Didi e Gogo che Godot non verrà oggi, ma arriverà sicuramente domani, e lo fa con tono volutamente monocorde, estraneo a qualunque coinvolgimento. A proposito di tono e di linguaggio, una nota speciale merita la scelta registica di caratterizzare i personaggi con l’uso non tanto di un dialetto quanto di una marcata inflessione: romana quella di De Silva, napoletana quella di della Corte, che conferiscono a Didi e Gogo una certa aria malinconica ed al contempo da laissez faire, in contrasto con l’esuberante e colorata inflessione romagnola di Barbera, che riesce a trasmettere al suo Pozzo entusiasmo prima e toccante riflessione poi.

In questo 2020 quasi immobile per la pandemia, tutti aspettiamo il nostro Godot; mentre Conte, giorno dopo giorno, ci rassicura che la fine dell’incubo arriverà sicuramente il giorno seguente. Poi quello dopo. E quello dopo ancora. In un circolo eterno e irrimediabile.

Michela Aloisi

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