In questo clima di incertezza fa piacere che alcuni eventi “dal vivo” siano tornati ad allietare la vita culturale capitolina e che tra questi vi sia anche “Da Venezia a Roma”, la storica rassegna che da parecchi anni ormai porta nella capitale una nutrita rassegna di opere, presentate in precedenza alla Mostra del Cinema di Venezia. Una sapida occasione, quindi, per confrontarsi in anteprima (e in versione originale sottotitolata) con quei grandi film che verranno distrubuiti solo in seguito, ma anche con certe sorprendenti scoperte cinefile che, purtroppo, di rado dopo la loro apparizione ai festival trovano spazio in sala.
È questo per esempio il caso di Kitoboy (The Whaler Boy), l’affascinante lungometraggio del russo Philipp Yuryev passato alle Giornate degli Autori, che ha poi stregato il pubblico del Farnese col suo linguaggio cinematografico estremamente vivo, moderno, quantunque rapportato a stili di vita antichissimi e a cornici antropologiche insolite. Ad essere scandagliato, in questo eccentrico road movie artico, è difatti il carattere di un ragazzo che vive in Russia, nelle vicinanze dello Stretto di Bering, ma che aspira in segreto ad abbandonare le abitudini della sua antica popolazione per abbracciare il “sogno americano”, distante solo poche miglia marine. Paesaggi dalla fine del mondo, nuovi mezzi di comunicazione sopraggiunti ad alterare equilibri vecchi di secoli, scene crudissime di caccia alle balene e visioni di impronta sciamanica si alternano sullo schermo, generando una costante meraviglia.
Altri titoli non meno allettanti si stanno dando il cambio nelle sale della capitale coinvolte in questa lodevole iniziativa: Lux, Adriano, Intrastevere, Greenwich, Quattro Fontane, Tibur, Eden e Giulio Cesare, oltre al Farnese. La rassegna è partita il 17 settembre e si chiuderà la sera del 24 al Giulio Cesare con Nuevo Orden, distopico lungometraggio di Michel Franco che promette decisamente bene.
L’invito è pertanto a consultare accuratamente il programma, per non perdere altre chicche ancora in programmazione. Di alcune stuzzicanti pellicole possiamo offrirvi una testimonianza noi, in base a quanto visto nelle scorse giornate. A partire da un film non facile, ma di inusitato spessore, come The Book of Vision di Carlo Shalom Hintermann: dopo aver aperto a Venezia la 35° edizione della Settimana Internazionale della Critica, questo visionario lavoro era andato incontro alle reazioni più disparate, talvolta fredde e talvolta sinceramente turbate, commosse, generando incomprensione in alcuni e brillando di una luce più intensa per altri. Come era fin troppo prevedibile. Perché in una vicenda tanto enigmatica, che lega le ricerche compiute nel presente da una giovane dottoressa, Eva, ai contenuti del manoscritto di Johan Anmuth, un medico del 18° secolo, si colgono tracce che sfuggono alla razionalità pura per confluire in altri linguaggi: sogni, reminiscenze, visioni.
Noto è anche che Carlo Shalom Hintermann, già entrato in sintonia col titanico autore statunitense grazie ai suoi trascorsi documentaristici (cfr. Rosy-Fingered Dawn) abbia trovato qui in Terrence Malick un Produttore Esecutivo d’eccezione. E il regista di The Book of Vision, che durante la presentazione capitolina del film ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente due Maestri della critica, Enrico Ghezzi e il recentemente scomparso Edoardo Bruno, proprio ai Maestri sembra guardare con un rispetto misto al desiderio di emularne i passi. Se perciò la parte finale del lungometraggio coi suoi toni lirici, con quella dialettica luminosa che abbraccia essere umano e Natura, con la libertà espressiva distillata finanche nel montaggio, sembra guardare alla stessa poetica “malickiana”, nei segmenti narrativi di matrice settecentesca è una messa in scena dalle forti suggestioni “kubrickiane”, specialmente riguardo alle geometrie e alla luminosità degli interni, ad offrire al pubblico più partecipe un possibile indirizzo interpretativo.
Autentici colpi allo stomaco sono stati invece Quo Vadis Aida? di Jasmila Žbanić, in Concorso, e Shorta dei danesi Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm, pescato anch’esso nella Settimana Internazionale della Critica.
La prima è una ricostruzione tanto meticolosa quanto angosciante del massacro di Srebrenica, una tra le pagine più orribili e vergognose della guerra in Bosnia, coi crimini compiuti dalle milizie serbe del Generale Mladić facilitati anche dalla misera arrendevolezza dell’ONU e dei suo “caschi blu”. Non meno serrata ed ansiogena la costruzione drammaturgica di Shorta, ambientato in una di quelle periferie europee dove le migrazioni incontrollate, i conflitti etnici e il ruolo ambiguo dello Stato, troppo permissivo a volte e pronto ad accettare o favorire eccessive repressioni poliziesche in altri frangenti, hanno dato vita a una vera e propria polveriera sociale.
In conclusione, segnalazione d’obbligo per Spy no tsuma (Wife of a Spy) di Kiyoshi Kurosawa, raffinato noir ambientato a Kobe durante la Seconda Guerra mondiale, con torbide tracce da melodrammone bellico a ispessire l’atmosfera, che a Venezia ha vinto anche il Leone d’argento per la Miglior Regia, confermando tutta la grandezza dell’autore nipponico.