Evergreen, il nuovo album di Calcutta

Io l’ho conosciuto a WebNotte, il programma condotto dal duo Ernesto Assante e Gino Castaldo. Questo ragazzo così stralunato somigliava troppo a “Pincio”, musicista mancato ma personalità dotata di talento, fratello di un mio caro amico della Ciociaria. In più, questo Calcutta, così si presentava, cantava “Frosinone“. Ma lui era di Latina e di nome faceva (fa) Edoardo e non Simone. La curiosità si accendeva ancora di più dopo aver ascoltato quella canzone e quella successiva, “Gaetano“. Melodie semplici e immediate, testi “familiari”. Quant’è bravo questo Calcutta! Il fenomeno era già esploso, io ero rimasto solo un po’ indietro. Così, grazie a Spotify, mi sono messo ad ascoltare “Mainstream”, il suo primo album. Habemus un cantautore, ho pensato. Un cantautore vero, non banale, che nella penna semplice racconta un mondo. Senza troppi giri di parole, senza alchimie intellettuali fine a se stesse.

La sfida per Edoardo D’Erme da Latina, detto Calcutta, con il suo attesissimo secondo album era davvero impegnativa.  Ed “Evergreen” segna il ritorno di questo cantautore che al “secondo rigore” non sbaglia il tiro e segna un altro importante goal. Forse il maggiore obiettivo raggiunto è quello di segnare un confine, di marcare una differenza tra lui e i molti che “provano” a fare Calcutta. Il cantautore di “Cosa mi manchi a fare” ha segnato una strada, ma percorrerla con la sua leggerezza e la sua bravura è roba di pochi. Forse solo sua. Timidamente, quando accennavo a lui come a qualcuno che “ricorda Battisti”, mi vergognavo quasi a dirlo, tanta è la grandezza inarrivabile di Lucio. Eppure, a distanza di anni, il primo paragone si conferma. Almeno in un fattore: la capacità di entrare immediatamente in sintonia con il pubblico. Le sue “canzonette” sono immediatamente citate, le sue melodie fischiettate. Il pop italiano improvvisamente ha trovato un suo portavoce. Senza essere tacciati di blasfemia, la capacità di far apparire semplici le cose difficili ce l’hanno solo i grandissimi, come Lucio Battisti appunto. Ovviamente Battisti aveva doti da musicista e da innovatore che ne fanno davvero un totem. Ma d’altro canto Calcutta, con la sua umiltà risponde: “se dopo secoli di musica e 7 note vuoi reinventare la musica…auguri!“. Eh già, perché poi il personaggio è interessante. A chi gli chiede un giudizio sulla musica “indie” risponde sincero: “ma alla fine cosa significa indipendente? Fai musica indie solo fino a quando non vendi dischi. Poi non lo sei più“. Verità lampante, non c’è che dire. Ben lontani i tempi dove, solo per citare alcuni esempi, Afterhours e Marlene Kuntz rappresentavano davvero la “scena indie“, quella contrapposta al mondo delle major discografiche, delle radio e delle TV. Oggi sei indie perché fa figo, ma l’essere indipendente è una condizione commerciale, non un genere musicale. E infatti in TV, come nelle radio, è pieno di cosiddetta musica indie che di indipendente non ha davvero nulla.

Questo nuovo album si inserisce nel solco tracciato da Mainstream, consolidando la formula originale fatta di un’estetica che, attraverso le parole, costruisce immagini vivide e luminose. Testi sorprendenti e quasi nonsense, (“lo sai che Tachipirina 500 se ne prendi diventan 1000” in Paracetamolo) mescolati con un pianoforte sempre in primo piano a dettare la melodia. Arrangiamenti semplici eppure eccentrici che danno il via a facili ritornelli che, è facile immaginare, diventeranno cori da stadio nei concerti. Testi ironici eppure evocativi, surreali quanto basta a disegnare con la fantasia un mondo a tratti malinconico incentrato sull’intimità dei personaggi, sulla piccola storia a cospetto del grande tema.

I vari “Orgasmo”, “Paracetamolo”; “Pesto”, ascoltatissimi in radio, sono pezzi semplici ma non banali, e anzi molto più complessi di quanto un primo ascolto faccia pensare. I testi e le melodie fanno emergere una creatività che viene supportata da un timbro vocale unico e particolare. Calcutta avrebbe potuto ripetere la fortunata formula del suo lavoro precedente, invece si è spinto oltre, verso una dimensione più matura, a tratti maggiormente introspettiva (come in “Briciole”, ad esempio, o nella stessa “Dario Hubner”) ma ad ogni modo sincera, vera, profonda.

Il talento compositivo di Calcutta si conferma con brani in qualche modo “più distanti” dal suo repertorio, basti pensare a “Rai” (dotata di maggiore ritmo rispetto al resto dell’album”) o a “Nuda nudissima” e finanche a “Saliva”, un altro tra i testi più riusciti di questo lavoro discografico.

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