MOONLIGHT: LA CRESCITA PASSA DA MILLE SFUMATURE DI BLU

La pellicola del regista afroamericano Barry Jenkins vince il Golden Globe e corre agli Oscar con otto candidature. Infanzia, adolescenza e età adulta raccontate attraverso la vita di un omosessuale dalla pelle nera. Un percorso da cui nessuno è escluso.
Il regista Barry Jenkins

Ha già incassato il Golden Globe per il miglior film drammatico ed è destinato a rimanere nella storia. Moonlight, film del regista afroamericano Barry Jenkins, sarà disponibile nelle sale italiane dal 16 febbraio, ma la critica d’oltreoceano lo ha già osannato. Tutti concordi nel metterlo ai primi posti delle classifiche dei migliori film dell’anno, per il New York Times è tra i migliori del XXI secolo.

La pellicola racconta l’evoluzione di un ragazzo omosessuale afroamericano cresciuto nelle malfamate periferie di Liberty City, a Miami. La storia è divisa in tre fasi, secondo il soprannome attribuito al protagonista: la prima è quella di “Little”, il piccoletto. Chiron (Alex Hibbert) è un bambino introverso che vive con la madre tossicodipendente (Naomie Harris). Fra i compagni della sua età è il più gracile, fisicamente e interiormente. Conosce uno spacciatore del quartiere (Mahershala Ali) che diverrà il suo punto di riferimento, il padre che non ha mai avuto. La seconda fase è quella dell’adolescenza, ed è denominata “Chiron”. Qui il protagonista sedicenne (Ashton Sanders) scoprirà la sua omosessualità e si troverà a subire le angherie dei bulli della scuola. La terza e ultima fase corrisponde all’età adulta, il protagonista è diventato lo spacciatore “Black” (Trevante Rhodes).

Una storia afroamericana girata e interpretata da afroamericani: dalla regia al cast, tutti i partecipanti sono di pelle nera. Eppure non è un film dedicato a una minoranza. Non solo, almeno. Non è neanche una semplice denuncia sociale, o la classica storia di emarginazione di un omosessuale afroamericano. Non è un polpettone drammatico, né un lagnoso piagnisteo. Moonlight si prefigge un obbiettivo ben più alto: raccontare la crescita, l’evoluzione interiore di un uomo, dall’infanzia all’età adulta. La particolare condizione del protagonista, cioè quella di essere omosessuale e di minoranza etnica, è solo un punto di partenza per raccontare una storia universale che suscita, proprio per questo, compassione.

Il giornalista del New York Times Anthony Scott ha inserito Moonlight nei migliori film del XXI secolo perché non è ancora riuscito a dissipare questo cruccio: “Si parla spesso dell’identificazione dello spettatore con il personaggio, ma in Moonlight succede qualcosa di diverso. Lo spettatore si sente vicino al protagonista. Si sente responsabile per lui. Ho studiato questo film da vicino, e non sono ancora sicuro di come Barry Jenkins sia riuscito a creare tutto questo”. Il segreto di lunga vita di Moonlight è proprio la capacità di suscitare nello spettatore la compassione per il protagonista e, soprattutto, per se stesso.

Si può provare, come ha fatto Scott, ad analizzare il film punto per punto e tentare così di svelare la magia messa in atto dal regista Barry Jenkins. Come si è detto, Jenkins è riuscito a rendere la storia universale, un racconto in cui ognuno di noi può identificarsi. Per far questo ha lavorato molto sulla sceneggiatura. Il punto di partenza, il soggetto, è la piéce teatrale di Tarell Alvin McCraney In Moonlight Black Boys Look Blue, alla luce della luna tutti i neri sembrano blu. Tarrell scrisse il racconto nel 2003 partendo dalla sua esperienza autobiografica, cioè quella di figlio di una madre tossicodipendente. Anche il regista Barry Jenkins ha lo stesso percorso, è cresciuto nel quartiere di Liberty City di Miami negli anni ’80, quando la dipendenza da crack distrusse un’intera generazione di giovani americani. Dunque anche Jenkins sa cosa significa essere figlio di una madre tossicodipendente e di minoranza etnica. E lo sanno, in un certo senso, anche gli attori che hanno partecipato al film. Scegliere di ambientare Moonlight in quel periodo storico è certamente un sfogo personale ma anche una denuncia sociale: gli afroamericani di oggi sono esattamente quei bambini che negli anni ’80 abitavano le periferie malfamate della California. Il tratto autobiografico ha certamente aiutato regista e attori ad esprimere al meglio un determinato percorso, ma per rendere questa storia universale Jenkins sceglie di non raccontare tutto.

“Non è vero realismo”, spiega il regista. In effetti, sarebbe più azzeccato parlare di impressionismo. Nella trama del film vengono presentati solo alcuni fatti salienti, quelli che servono a giustificare l’evoluzione del personaggio, ma molti avvenimenti vengono taciuti. Non sappiamo, ad esempio, come sia avvenuta l’improvvisa scomparsa di Mahershala Ali, lo spacciatore che diviene il padre adottivo del protagonista. A metà del film la sua figura semplicemente scompare, lo veniamo a sapere da un dialogo. Una perdita grave nella vita del protagonista che non viene raccontata, né sappiamo come il bambino Chiron abbia potuto affrontare il lutto. Ciò che conta per Jenkins non sono i fatti in sé, ma le cicatrici che quegli avvenimenti hanno lasciato sul personaggio. È sufficiente vedere il sedicenne Chiron, palesemente sguarnito, per capire l’importanza di quella perdita.

I dialoghi proseguono rimandando a fatti sconosciuti e citati solo di sfuggita con un semplice: “Ti ricordi di quella volta?”. Così la storia diventa universale, giacché ognuno di noi ha in testa un ricordo di “quella volta”. La scrittura dei personaggi e l’interpretazione degli attori fanno il resto. In Moonlight tutti gli schemi mentali vengono abbattuti: uno spacciatore può essere un buon padre, una madre tossicodipendente è pur sempre una mamma, la droga è dannazione, ma anche leggera evasione, senza troppo impegno. Il bulletto che perseguita il ragazzino Chiron e lo prende in giro per la sua omosessualità, riesce a minacciarlo e contemporaneamente ad osservarlo con occhi ambigui. Lo Chiron adulto è uno spacciatore che ha seppellito il bambino sotto una montagna di muscoli, ma conserva ancora dei tratti infantili, come quello di mettersi una dentiera posticcia per sembrare più “duro”. Perché prima o poi, il bambino, ritorna.

I personaggi non sono semplicemente di pelle nera, ma più propriamente blu, colore che nella lingua inglese indica tristezza, malinconia, profondità. Il regista prova a raccontare questo complesso mondo interiore utilizzando ogni mezzo possibile, compresi quelli più strettamente tecnici. Così la luce diviene brillante quando il protagonista vive un’epifania, il sonoro si ferma quando è chiuso in se stesso. La telecamera punta dritto al volto di chi parla, come se l’attore stesse parlando direttamente allo spettatore. Il blu viene iniettato nella pelle dei protagonisti durante il lavoro di post-produzione, il regista sceglie tre stili cromatici diversi per raccontare le tre fasi della vita di Chiron (la prima fase è in stile Fuji Film, la seconda in stile Agfa, la terza Kodac).

La bravura degli attori, l’esperienza autobiografica, l’utilizzo della tecnica e la scrittura della sceneggiatura certamente concorrono a realizzare quella piccola magia di cui parla il giornalista Anthony Scott, cioè quella di suscitare compassione. Eppure non sembra sufficiente. Se fosse per la tecnica, bisognerebbe dire che non basta una buona telecamera o l’utilizzo della luce per creare un simile effetto. Soprattutto se si ha a disposizione un budget risicato: Moonlight è costato in totale 4 milioni di dollari (anche se il regista su twitter afferma di averne avuti a disposizione, effettivi, solo un milione e mezzo). Una qualsivoglia star di Hollywood guadagna molto di più, per dire. La performance degli attori è ottima, ma non sono gli unici interpreti di talento al mondo. Per la verità sono tutti alle prime armi, ad eccezione di Mahershala Ali che si è reso celebre per aver partecipato alla serie tv House of Cards. Per il regista Barry Jenkins Moonlight è il primo lungometraggio, nel suo curriculum è presente solo il documentario Medicine for Melancholy. Insomma se bastasse bravura e tecnica, allora qualsiasi regista potrebbe suscitare nello spettatore ogni tipo di emozione, ma non è così che funziona.

Ci sono dei film che ti fanno svegliare la mattina del giorno dopo avendo ancora in testa le immagini viste la sera prima. E questo, generalmente, significa che abbiamo visto un buon film. Con Moonlight il risveglio è diverso: le immagini della pellicola rimangono sullo sfondo e lo spettatore è tutto ripiegato a pensare a se stesso. Al percorso che ha fatto, agli avvenimenti che lo hanno segnato e che lo hanno fatto diventare ciò che è oggi. Come il realizzare che la persona a cui tenevi tanto non è quello che sembra. O “quella volta” in cui ti sei sentito messo da parte. Oppure quella telefonata che non ti aspettavi di ricevere e che ti ha fatto stranamente piacere. E la curiosità di scoprire come Barry Jenkins abbia potuto realizzare un simile incantesimo.

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