Titolare il profano con il Sacro. Ricercare l’inquadratura perfetta. Ossessivamente. Rappresentare il quotidiano, forse costruito a tavolino, come fosse un tal quale. Il film-documentario di Gianfranco Rosi contiene in sé tutti questi aspetti, ed altri ancora. Piccole sfumature di racconto presentate in maniera circolare, senza inizio né fine, riprendendo esattamente la forma del Grande Raccordo Anulare, l’anello di asfalto che cinge la capitale.
L’opera è vincitrice del Leone d’Oro al miglior film alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, il primo documentario ad aggiudicarsi un simile riconoscimento. L’eccezionale capacità di Rosi nel rappresentare la bellezza di un luogo fatto sostanzialmente di asfalto e sterpaglie, meritava un riconoscimento. Il luogo è effettivamente un’area dimenticata, ritenuta semplicemente funzionale al raggiungimento del centro della città, dove si trova un’altra bellezza, quella più celebre e monumentale. La passione per le “città invisibili” di Rosi porta il regista ad indagare il Gra lungo i suoi 70 kilometri.
L’idea originale è di Nicolò Bassetti, paesaggista-urbanista che ha girato il Raccordo a piedi, zaino in spalla, conoscendo e fotografando i protagonisti del film. Qui si aggiunge Rosi che si unisce al progetto che successivamente diverrà film-documentario, libro (di Niccolò Bassetti e Sapo Matteucci, edizioni Quodlibet) e prossimamente una mostra, ancora in fase di realizzazione. Si sceglie di narrare la vita degli abitanti di zona bypassando la struttura classica del documentario: non c’è commento, voce narrante o presentazione, luoghi e personaggi si mostrano da sé, per ciò che sono.
Così l’autostrada è presa un po’ dall’alto, un po’ nel dettaglio, se ascoltata da lontano appare come un mostro che emette suoni sinistri e profondi, ma che risulta piacevole alla vista, perché Rosi non lascia niente al caso. Le storie sono quelle degli abitanti di zona, ognuno decadente, a modo suo, ma vero, verissimo.
La bravura del regista, in questa fase, è ineccepibile. Non c’è la tipica assuefazione all’immagine che ormai ci coinvolge tutti e che ci ha resi, in qualche modo, personaggi grossolanamente artefatti. Non c’è facebook, non c’è selfie, c’è solo la naturalità dei gesti dei protagonisti, quando mangiano un panino con la mortadella, o si tolgono la tuta del lavoro, persino quando presentano se stessi.
Non c’è alcun collegamento fra le diverse vite che compongono il paesaggio urbano, se non quello di essere tutte attraversate da un unico anello di asfalto. I protagonisti appaiono a tratti alieni, persi nelle loro singole passioni, come quella delle anguille o degli insetti, reduci da vecchie glorie, di quando si era giovani prostitute o principi barocchi.
Sembra che non abbiano niente a che vedere con l’oggi, come se vivessero in un incanto dato dal luogo, dimenticati come il luogo stesso. Storie che si intervallano ad inquadrature lente e silenziose del contesto, forse troppo lente, a rischio di apparire auto-celebrative. Un neo nella perfezione.