Folfiri o Folfox

A quattro anni di distanza dalla pubblicazione del loro ultimo album in studio “Padania”, gli Afterhours irrompono sulla scena musicale italiana con un nuovo progetto discografico. Prodotto da Tommaso Colliva e Manuel Agnelli, il nuovo album di inediti si intitola “Folfiri o Folfox” ed è bene dirlo subito: si tratta di un grandissimo album.

Sembra paradossale che un album realizzato da una band totalmente rinnovata rispetto agli inizi (di fatto, dopo gli abbandoni dello storico batterista Giorgio Prette e del chitarrista Giorgio Ciccarelli, è rimasto il solo Manuel Agnelli membro fondatore del gruppo, oltre a Xabier Iriondo – chitarrista storico tornato negli Afterhours da circa 5 anni) richiami così fortemente proprio i primi lavori. Mi riferisco soprattutto a quella ventata di indie-rock italiano che rappresentarono album come “Germi” (1995) e il pluri-premiato “Hai paura del buio?” (1997).

Se i lavori sopra citati erano l’emblema della rabbia e del rancore, “Folfiri o Folfox” è l’album della maturità, dell’accettazione della vita e dei suoi cicli: immaginazione, speranza, dolore, rassegnazione, morte, rinascita, vita. Il tutto accompagnato da una struttura possente, da tratti musicalmente violenti con testi graffianti, come la penna di Manuel Agnelli sa comporre. La morte e il dolore sono centrali: Folfiri e Folfox sono infatti due trattamenti di chemioterapia necessari per lottare contro il cancro, malattia che ha portato alla morte il padre di Agnelli. Ma non si tratta di un disco cupo, anzi nella rabbia emerge possente la forza di risollevarsi, di trovare la speranza, la luce e la bellezza stessa della vita.

Dal punto di vista musicale è apprezzabile la volontà del continuo cambio di registro: si passa dalle ballate melodiche in puro stile Afterhours a canzoni dure e ruggenti, da brani altamente sperimentali a brani che sono un mix sapiente della capacità di fare musica della band. L’album, anzi il doppio album, si compone di 18 tracce, di cui due strumentali che nel titolo richiamano i nome di due farmaci usati nei trattamenti chemioterapici: “Cetuximab” e “Ophryx“.

Il primo brano è “Grande“: una chitarra, pochi accordi e una melodia che farà felice i fan degli After. Si passa quindi a “Il mio popolo si fa“, il primo singolo lanciato, in cui le dissonanze musicali (che al primo ascolto fanno storcere il naso, ma poi si fanno amare) accompagnano una sorta di manifesto politico: “Uno Stato si fonda sul gioco d’azzardo e sul culto della sfiga…[…] Il mio popolo si fa: Dio, fortuna e trans!“. Un brano in cui si dimostra la capacità di Agnelli di interpretare la società in maniera originale, senza i lacci ideologici di un certo perbenismo o, peggio ancora, di una certa ribellione solo manieristica e intellettualoide. Quasi il prosieguo di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”, nel punto in cui, ora, il protagonista guarda l’orrore della società odierna e, fatto d’anfetamine in un festino, festeggia il suo destino forse disilluso ma sereno. D’altronde, come dice il brano “La violenza in società crede nella sfiga. Spacciava l’eroina, oggi spaccia libertà“.

L’odore della giacca di mio padre” è sicuramente un riferimento a tutta l’angoscia che si vive quando una malattia così meschina si insinua nel corpo di una persona a cui vuoi bene. Sulle note struggenti di un pianoforte ci si ferma a pensare: “Tuo padre è nel suo letto. Tu guardi la tv. E ti chiedi se hai risposto ai suoi occhi con i tuoi”. Arriva il momento di “Non voglio ritrovare il tuo nome“, ballata melodica che sembra quasi la conclusione rasserenata e matura della rabbia esplosa in precedenti canzoni, su tutte “Lasciami leccare l’adrenalina” (tu sei bella vestiti di lividi) “Male di miele”, “Pelle” (tutte contenute in “Hai paura del buio?”). Il ricordo di un amore (“E per te io volevo diventare un uomo e farti ridere, ma ti ho odiato quando sei andata via.“), la paura del dolore (“Ti nascondo dentro me per non ritrovarti più. La vedo la tua luce, sai?  Ma non voglio ritrovare il tuo nome“) e infine la serena accettazione degli avvenimenti della vita (“La tua intelligenza non ti lascia sola mai, dimentichi il sapore, sai dimentichi la voce. Ma lo sai che è stato meglio così“).

Ti cambia il sapore“, “San Miguel“, “Qualche tipo di grandezza” e “Lasciati ingannare (una volta ancora)” chiudono la prima parte del disco in maniera decisamente soddisfacente, anche se non raggiunge le vette della prima parte.

La seconda parte del disco si apre con “Oggi“, in cui nel testo é possibile scorgere l’amarezza di una realtà che prende il sopravvento rispetto ai sogni e alla fantasia. Altri grandi ballate sono “Noi non faremo niente” e “Né pani né pesci“, in cui le atmosfere ricordano molto, in positivo, un altro ottimo disco degli After, ovvero “Quello che non c’è”. La velocissima e arrabbiata “Fra i non viventi vivremo noi”  lascia la scena a “Il trucco non c’è” e infine a “Se io fossi un giudice” (il titolo è forse un ironico richiamo alla partecipazione come giudice di Manuel Agnelli a X Factor?), che racchiude benissimo tutto l’album: bisogna cadere per poi rialzarsi, occorre soffrire per essere felici.

Un album da ascoltare. E riascoltare.

Gli Afterhours sono:
Manuel Agnelli – Voce, chitarra, tastiere
Xabier Iriondo – Chitarra
Roberto Dellera – Basso
Rodrigo D’Erasmo – Violino
Fabio Rondanini – Batteria
Stefano Pilia – Chitarra

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