Intervista a Mario Bonanno

Mario Bonanno
Mario Bonanno scrive libri e articoli sui cantautori italiani. Nel 2007 ha fondato e diretto per Bastogi il periodico specializzato Musica & Parole. Con Stampa Alternativa ha pubblicato: Che mi dici di Stefano Rosso? Fenomenologia di un cantautore rimosso; Rosso è il colore dell’amore. Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli e Io se fossi Dio. L’apocalisse secondo Gaber. Oggi si racconta attraverso le pagine del suo ultimo libro.

Mario BonannoTitolo – LA MUSICA È FINITA Quel che resta della canzone d’autore
Pagine: 176
Formato: 15 x 21 cm
Prezzo: euro 15,00
ISBN: 978-88-6222-479-6
uscita: luglio 2015

La musica è finita” è il tuo ultimo libro. Un racconto a ritroso nella musica cantautorale italiana, snocciolando il senso delle canzoni tra l’amore, la politica, il sociale e qualche banalità. Cos’era dunque la canzone d’autore e cosa è ora?
Le banalità ci possono sempre scappare ma – in linea di massima – là dove c’è banalità non c’è canzone d’autore.
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta la canzone d’autore ha rappresentato un fenomeno dalla forza innovativa dirompente. In grado di scompaginare le carte stantie della canzone italiana tradizionale, strappandola al piano stucchevole della retorica pop per ricondurlo a quello inedito della realtà.

Arrivo a dire che la canzone d’autore è stata per certi versi un’espressione meta-musicale, contigua finanche alla letteratura e alla poesia, con dentro sensi e significati plurimi.

Oggi le canzoni sono per lo più tornate al vizio originario dell’inessenzialità. In giro suona tutta un’altra musica, per via della miopia intellettuale di discografici e ascoltatori: sono cambiati i generi ed è cambiato finanche il modo di stare al mondo. Non certo in meglio.

C’è una sorta di spartiacque, un periodo di tempo ben definito di come la musica ha iniziato a non essere soltanto più “canzonette”, bensì parole profonde e poetiche. Questa svolta la identifichi nella figura di Luigi Tenco. Vuoi raccontarci di più al riguardo?
Luigi Tenco – più ancora che il Modugno di “Nel blu dipinto di blu” – ha rivoluzionato le carte della scrittura musicale. Lo ha fatto assegnando coordinate veriste alla poetica della canzone.

Prima di Tenco la scrittura musicale era un profluvio di cuori infranti sotto cieli di lacrime e pioggia, figli lontani, mamme mogli devote, stereotipie fatte canzoni, insomma.

“Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare”

scrive Tenco nel 1967.

E da quel momento in poi niente sarà lo stesso sotto l’aspetto della scrittura cantautorale.
Luigi Tenco solleva il velo di Maja dell’ipocrisia borghese, ammantando persino l’amore di una patina esistenzialista, declinandolo al non-senso intrinseco dello stare al mondo. Luigi Tenco è stato colui che ha dettato le coordinate della canzone d’autore.

Certo sulla scorta del protest-song americano e del vento del Sessantotto che cominciava a soffiare anche in Italia.

Qual è il cantautore che secondo te ha lasciato più tracce nella musica italiana?
Secondo la vulgata comune Fabrizio De Andrè è stato (ed è) un cantautore assoluto. Provo ad essere un po’ meno prevedibile e ti dico: Francesco Guccini, perché è il cantautore del dubbio ontologico, e sotto l’aspetto letterario le sue canzoni non hanno uguali.

Mario BonannoRoberto Vecchioni, per come ha saputo quotidianizzare – a volte persino rovesciare di senso – la mitologia, e per le costanti “alte” di Morte, Tempo, Dio attorno ai quali si evolve buona parte del suo canzoniere.

Claudio Lolli, il poeta dell’impegno civile, dell’amore ai tempi del fascismo (per citarlo), di una coerenza ideale adamantina, umanissima, come oggi non si usa più. Ma non trascurerei le rarefazioni sui generis di Paolo Conti nè la rivoluzione semantica rintracciabile nei testi del “primo” De Gregori.

Qual è invece il tuo cantautore preferito, nonchè canzone?
Ho ascoltato tutto di tutti i cantautori degni di tal nome, ma le canzoni di Vecchioni hanno sottolineato, in un modo o nell’altro, i momenti più significativi della mia vita, al punto da costituire per me delle vetero-madeleine di proustiana memoria.

Niente da fare: mi ci trovo a mio agio, mi ci sento a casa, mi ci rispecchio, persino in quelle meno riuscite.

L’ultimo spettacolo è un brano che non finirei di ascoltare. Appartiene a un album buio come Samarcanda ed è a sua volta una canzone buia, costruita in modo mirabile. Canta di un amore finito male, ma dentro contiene una miriade di rimandi alti e bassi: si riferisce alla classicità, alle occasioni e alle parole mancate, alle Muratti fumate come da circostanza, alle lacrime e alle rabbie trattenute, ai treni partiti per Torino e per sempre.

Dal punto di vista musicale, inoltre, è di un lirismo da brividi. Ultimamente Vecchioni ha ripreso a riproporla dal vivo e a mio avviso fa benissimo.

Secondo te, perchè a volte i cantautori hanno difficoltà a varcare i confini nazionali?
Perché, come scriveva qualcuno, le parole sono pietre e quelle delle canzoni dei cantautori lo sono di più. Se non ne afferri il senso e la poetica interna, per ragioni di lingua o per altro, devi giocoforza accontentarti della melodia da pianobar, del verseggiare elementare di Eros Ramazzotti o del Volo, roba buona per i russi, i latinoamericani o gli emigranti di seconda e terza generazione.

Per andare ad esempi più alti, non è un caso che all’estero funzionino soprattutto i dischi di Paolo Conte e Angelo Branduardi, più musicisti che cantautori, funzionano in forza delle suggestioni che riescono a evocare in chi li ascolta.
La comprensione del testo, nel loro caso, è relativa.

I cantautori al giorno d’oggi: quali sono quelli che ritieni interessanti e che dovrebbero avere più spazio o essere per lo meno conosciuti dal grande pubblico?
Faccio fatica a rispondere a questa domanda, in quanto, come ti dicevo, sono drasticamente cambiati tempi e forme della canzone d’autore.

Parafrasando il titolo del mio libro, secondo me, anzi, è proprio finita. Se non altro nell’accezione alta e più significativa del termine. Non è che oggi, con qualche sforzo, non possano rintracciarsi artisti interessanti (certo non quelli venuti fuori dai talent) ma occorrerebbe chiamarli in altro modo: mancano di background, fanno un altro mestiere, non sono cantautori.

Luca Ghielmetti meriterebbe di essere ascoltato con molta più attenzione ma non è più un giovane di primo pelo e nella vita fa altro per vivere.
Piero Sidoti e Filippo Andreani non mi dispiacciono, credo anche di averne scritto bene, da qualche parte, ma resto convinto che i cantautori di una volta erano e sono un’altra cosa.
Ho perso un po’ il contatto con la (nuova) musica che gira intorno ma, a orecchio, non penso di essermi perso granchè.

A quando risale la pubblicazione del tuo “La musica è finita”?
Il libro è uscito a luglio per Stampa Alternativa e – mi dicono – stia andando bene. La cosa mi fa piacere, soprattutto perché mi auguro che questo libro possa finire tra le mani dei più giovani, così che possano farsi un’idea di cosa si sono persi.
Per ragioni anagrafiche e anche per l’afasia intellettuale di media e discografici attuali.

A quali altri progetti stai lavorando?
Ho appena licenziato un libro-intervista con Luca Bonaffini.
Tra poco tornerò ad occuparmi di Roberto Vecchioni, vorrei provare ad inquadrare la sua discografia attraverso un focus rimasto inedito, non farmi dire di più.

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