“La religione impedisce ai nostri figli di ricevere un’educazione razionale; la religione ci impedisce di rimuovere le cause fondamentali delle guerre; la religione ci impedisce di insegnare l’etica della collaborazione scientifica in luogo delle vecchie, aberranti dottrine di colpa e castigo. Forse l’umanità è alla soglia di un periodo aureo; ma per poterla oltrepassare sarà prima necessario trucidare il drago di guardia alla porta: questo drago è la religione.”
È il premio Nobel per la Letteratura Bertrand Russell a sostenerlo nel 1927 al Battersea Town Hall di Londra nel discorso intitolato “Why I Am not a Christian” (Perché non sono cristiano). Ed è dalla raccolta di saggi che ne è seguita che l’artista inglese Rachel Howard (Easington, 1969) è partita per comporre il suo lavoro “Paintings of Violence”, che non a caso ha come sottotitolo: “Why I am not a mere Christian” (con l’aggiunta di un “mero” ripreso invece dall’opera teologica “Mere Christianity” di C.S. Lewis).
La sua più grande esposizione in Italia è al padiglione 9B del Macro Testaccio di Roma fino al 18 ottobre. Si tratta di una vera e propria indagine sulla morte, sulla religione e sulla violenza: quella calma, controllata, pianificata, quella che apparentemente non fa rumore. La Howard ha impiegato cinque lunghi anni, dal 2011 al 2016, per portare a compimento questa installazione composta da 10 dipinti e 7 sanguinosissimi asciugamani.
Ogni dipinto riproduce nelle dimensioni l’altezza dell’artista e l’apertura delle sue braccia. Utilizzando una riga a T, che rievoca un crocifisso, Howard ha lavorato con mano salda, facendo scorrere sulla superficie pittorica dall’alto verso il basso uno strato di colore rosso sangue. Sangue che ha macchiato la superficie pittorica illuminata efficacemente da un fucsia fluorescente di grande impatto. L’intero processo è stato poi ripetuto inserendo altro colore, facendolo scorrere e tamponadolo. Alla fine l’artista ha conservato e piegato gli asciugamani utilizzati per asciugare la riga a T e li ha sistemati su un piedistallo, come testimonianza del lungo processo creativo.
Come ha spiegato Thomas Krens della Fondazione Guggenheim, il lavoro di Howard è «un’intensa, ripetitiva, stratificata, disciplinata e infinita differenza gestuale». L’artista esprime la violenza pianificata, quella in grado di sopraffare chiunque; questi atti di terrore, queste minacce alla stabilità della vita quotidiana, hanno tutti qualcosa in comune. Sono diversi tra loro ma rimangono sempre gli stessi. «Non si tratta – spiega la stessa Howard – di un atto violento da baccanale, quanto invece della mano calma e ferma della violenza che agisce su ampia scala. È il danno massimo, attentamente pianificato e portato a termine senza fretta; quindi il lento taglio attraverso il colore a olio cremisi d’alizarina, che fa emergere il colore sottostante, puro e vulnerabile. E poi la ripetizione, tela dopo tela, in modo sempre uguale, ma ogni volta diverso».
In mostra anche altre opere più recenti, che riproducono motivi e reticoli sulla base dei concetti di ordine ed entropia. E non solo. Tra le opere in mostra spunta “Tongue and Tooth”, un olio e acrilico di quasi 3x3m che riporta a “Paintings of Violence”: ancora rosso, ancora un asciugamano straziato. «Anche se le finestre spalancate dalla scienza al primo momento ci fanno rabbrividire – diceva Bertrand Russell – abituati come siamo al confortevole tepore casalingo dei miti tradizionali, alla fine l’aria fresca ci rinvigorirà». Ed è la speranza di Rachel Howard.