Per chi scrive l’Islanda possiede un duplice, altissimo valore: coincide cioè, al momento di addentrarsi nei diversi anfratti di un immaginario personale fortemente legato alle terre artiche, col ricordo di un bellissimo viaggio compiuto a poco più di vent’anni, ma anche volendo con l’impronta delle molteplici pellicole, scoperte nel corso degli anni, che risultano ambientate in quello straordinario paese forgiato nel ghiaccio e nel fuoco.
Il periplo dell’isola dominata da vulcani e ghiacciai lascia notoriamente ricordi indelebili, nei viaggiatori che vi si avventurano. Ed il cinema, sia quello realizzato da autori del posto che certe grosse produzioni internazionali, presta un’attenzione crescente a quei paesaggi e stili di vita unici al mondo. Seppur con timbri ovviamente diversi. A questa trentanovesima edizione del Bergamo Film Meeting, forzatamente concepita in streaming per le restrizioni dell’era Covid, possiamo essere grati anche per aver portato alla ribalta due documentari, inseriti entrambi nella sezione Visti da vicino, che ci hanno fatto conoscere alcune realtà del paese nordico da una prospettiva decisamente intima, schietta. E con un filo di malinconia, dovuto al fatto che ad essere illustrate sono attività tradizionali al tramonto, destinate a sbiadire nella memoria, per i contraccolpi di una globalizzazione che non fa sconti a nessuno. Nemmeno a ridosso del Polo Nord.
I film in questione sono The Last Autumn (in originale Síðasta Haustið), della regista islandese di origine catalana Yrsa Roca Fannberg, e quel Lobster Soup che curiosamente si deve proprio all’incursione nel settentrione più estremo di due registi spagnoli, Pepe Andreu e Rafa Molés. Come a tracciare un curioso collegamento tra gli eredi dei Vichinghi e il temperamento iberico, mediterraneo, destinato in qualche modo a subirne il fascino. Polarità opposte che si attraggono. Venendo ora a Lobster Soup, dei due il più sorprendente, i cineasti spagnoli si sono fatti irretire (ma con un tatto e uno spirito d’osservazione ben più acuti, rispetto a quelli di un normale turista) dalla loro visita al caffè Bryggjan, situato in una cittadina di poche anime, dove ogni mattina un’eccellente zuppa di aragosta viene preparata e servita agli avventori, siano essi gente del posto o stranieri di passaggio. Siamo del resto in un modesto villaggio di pescatori, ingranditosi nel corso del tempo, che pur con la crisi vede ancora ora oggi nel via vai dei pescherecci e nella lavorazione del pesce le attività più fiorenti. Tutto ciò, ad ogni modo, in una zona cruciale per la vita della piccola nazione nordica: non molti kilometri separano infatti il paesotto in questione dalla capitale Reykjavík, dall’aeroporto internazionale di Keflavík e, soprattutto, dall’ormai popolarissima Laguna Blu, la cui caldissima piscina termale attira già da qualche decennio folte comitive.
Lobster Soup esplora una realtà dai tratti inconfondibili mescolando sapientemente momenti di amarcord, lampi di ironia e quel situazionismo che ci ha ricordato, per certi versi, l’adorabile naïveté di un altro leggendario documentario realizzato nei paraggi del Circolo Polare Artico, quel Cool & Crazy che il norvegese Knut Erik Jensen aveva voluto dedicare nel 2001 a un eccentrico coro scandinavo. I personaggi non meno originali e bizzarri che popolano il racconto di Lobster Soup sono invece gestori e clienti dell’amatissima caffetteria, ricavata nel modesto villaggio islandese da uno stabile vicino al porto, dove nel frattempo si era continuato a riparare le reti da pesca, almeno nel piano superiore. Anziani e chiacchiere. Le imperdibili serate jazz animate dalla band locale. Il proliferare di aneddoti sui compaesani e il ricordo dei defunti, durante appuntamenti pubblici destinati a trasformarsi in vere e proprie sedute di Storytelling. Più il flusso continuo, nonché essenziale per la sopravvivenza economica dell’impresa, di quei turisti attirati dalla limitrofa Laguna Blu e dalla buona reputazione della rustica caffetteria.
Difatti il caffè Bryggjan è diventato col tempo un’istituzione. Come fronteggiare però le tentazioni del progresso e il crescente disagio dei proprietari, che con l’avanzare dell’età facevano sempre più fatica a gestire la situazione? Persino in Islanda la globalizzazione avanza e le piccole attività tradizionali stentano a sopravvivere. Verso la fine del documentario si profila pertanto un epilogo alquanto uggioso, crepuscolare, amaro, coi fondatori della storica ristorazione spinti a cedere l’attività a più giovani imprenditori di Reykjavík, che, pur animati da tanta buona volontà, non potranno fare a meno di stravolgere l’identità del locale…
Un sottile fil rouge lega indubbiamente Lobster Soup al documentario di Yrsa Roca Fannberg, ambientato in un angolo della costa islandese ben più remoto e selvaggio. Con in sottofondo i versi di una popolare ninna nanna islandese, Sofðu unga ástin mín, rievocati più volte durante la narrazione, la regista ci trasporta quasi di soppiatto in un similare “piccolo mondo antico”, specchio di un’altra delle secolari fonti di sostentamento della popolazione islandese: l’allevamento degli ovini.
Úlfar, ultimo discendente di una lunga stirpe di pastori e agricoltori, vive in questa landa desolata con la moglie, sempre più distanti da figli e nipoti che hanno preferito lasciare il minuscolo centro abitato e trasferirsi nella capitale. Così al riproporsi dell’autunno si raduneranno tutti per l’ultima volta nell’allevamento di famiglia, in modo da partecipare al raduno del gregge per l’atto conclusivo, prima di abbandonare per sempre l’attività. Le pecore più giovani verranno vendute alle fattorie vicine e gli altri capi, compreso l’adorato montone nero, direttamente al macello, mentre indifferente come in un poema leopardiano il paesaggio ai bordi del Mar Glaciale Artico continuerà a testimoniare l’alternarsi delle stagioni.
Fin troppo austero nella confezione, The Last Autumn racchiude comunque nel passaggio dalla severità del bianco e nero ai non meno tenui, malinconici colori del paesaggio artico, il senso profondo di una trasformazione; un cambiamento epocale, che, pur vedendo riconosciuti gli oggettivi vantaggi di un’esistenza meno logorante e sofferta, sottintende l’interrompersi di un plurisecolare legame con la Natura. Con tutte le conseguenze del caso. A sottolineare opportunamente tale nesso è, sulle pagine di CineClandestino, quel Daniele De Angelis cui lasciamo volentieri l’ultima parola:
“Girato modulando alla perfezione bianco e nero e colori smorti, ad aumentare in maniera addirittura esponenziale la percezione di realismo, The Last Autumn è un documentario crepuscolare che riesce perfettamente a catturare la sensazione di fine imminente che permea l’intero ambiente ritratto. Senza alcuna forzatura di stampo melodrammatico i vari cicli naturali scorrono con naturalezza, accolti con neutra rassegnazione da Úlfar e la sua famiglia. Anche il dilemma tra vendere o sopprimere gli ovini a scopo macellazione viene accolto dal protagonista come una scelta dettata dalla convenienza economica, salvo poi far trapelare una certa umanità allorquando si trova ad accarezzare la pelle asportata al montone ucciso, l’unico del gregge. Úlfar ricorda, rivolgendosi alla pelle, quanto gli piacesse essere accarezzato in quel modo in vita. Un frammento di empatia, ovviamente lontanissimo da qualsiasi tentazione di macabra ironia, che immediatamente rientra nei ranghi di un’accettazione della morte come evento naturale delle cose. Ulteriormente testimoniato dall’intero segmento finale, durante il quale il protagonista ascolta una voce fuori campo – proveniente da una televisione o una radio – che elenca i nomi delle persone recentemente defunte nelle zone limitrofe. Con lo sguardo di Úlfar ad esprimere la consapevolezza che, prima o poi, sarà il proprio nome ad essere presente nella lista.”