DEEP PURPLE – WHOOSH! – Edel Germany / Ear Music – 2020
Produzione: Bob Ezrin
Formazione: Ian Gillan – voce; Steve Morse – chitarre; Roger Glover – basso; Ian Paice – batteria; Don Airey – tastiere
Titoli: 1) Throw my bones; 2) Drop the weapon; 3) We’re all the same in the dark; 4) Nothing at all; 5) No need to shout; 6) Step by step; 7) What the what; 8) The long way round; 9) The power of the moon; 10) Remission possible; 11) Man alive; 12) And the address; 13) Dancing in my sleep (bonus track)
Da qualche anno ormai i Deep Purple si sono sposati con Bob Ezrin, gigante della produzione che mette bocca sui pezzi che va a produrre, e lo fa con ottimi risultati.
Una formazione come questa, con Don Airey alle tastiere e Steve More alla chitarra, arrivati come frettolosi rincalzi molti anni fa e invece rivelatisi preziosi, già esperta e sapiente di suo, sotto la guida di un colosso con Ezrin sforna un altro disco che urla tutta la sua voglia di esserci, nonostante età, acciacchi e tutto il resto.
Certo, i vocalizzi di Child in time sono un lontano ricordo per Ian Gillan, 75 anni, ricordiamolo, che però, con tutto il suo bagaglio di esperienza e abbassando i toni, galleggia ancora molto bene, optando per un’impostazione più profonda, a tratti cupa. Nulla da eccepire poi, e ci mancherebbe, per la storica sezione ritmica, Roger Glover al basso e Ian Paice, il mostro alla batteria.
Formula molto usata come sempre i duetti tra la chitarra di Morse e le tastiere di Airey, esempio più riuscito Drop the weapon, ma anche No need to shout, mentre nella parte centrale di The long way round si preferisce un approccio più soft, dove la voce di Gillan rivela la sua età ma anche tutto il suo cipiglio.
Il tema ricorrente dell’album, indicato a chiare lettera anche nella copertina, è la fragilità umana, questa nostra pochezza cui sembriamo non volerci arrendere: è questo che lascia intendere l’immagine di un astronauta lentamente disintegrato dai venti cosmici.
Episodi un pò meno riusciti sono le ballads, Step by step, troppo moscia per essere Deep Purple, e Nothing at all, ben costruita ma alla resa dei conti un pò insipida; per il resto siamo di fronte ad un’uscita che, è chiaro, non va impietosamente confrontata con gli album che hanno fatto la storia, ma che certifica con la ceralacca la passione di cinque eterni ragazzi con la passione per l’hard rock di un tempo, e perfino concedendosi qualche mai eccessiva fuoriuscita, come nella bonus track Dancing in my sleep, pregna di contenuti elettronici, voce di Gillan compresa, o magari nell’opener Throw my bones, discutibilmente piazzata in apertura, ben dominata dalle tastiere ma con un cantato che, pretendendo di far valere i gradi, finisce per risultare di scarso mordente.
Due tributi da segnalare: And the address, versione funkeggiante dello strumentale che aprì il primo episodio del mito Deep Purple, Shades of Deep Purple nel 1968, a firma di Jon Lord e Ritchie Blackmore, due elementi che hanno pesantemente contribuito a consegnare i nostri alla storia, e What the what, dedicata a Little Richard, scomparso da qualche mese.
Un disco che si fa tranquillamente ascoltare, almeno per conoscenza, e non scalfisce la presenza dei Deep Purple nell’olimpo del rock; detto questo, dopo l’ascolto, si potrà benissimo riprendere In rock o Machine head e alzare il volume.
Alessandro Tozzi