Il 25 Ottobre il Graduate Center (City University di New York) ha ospitato la premiere newyorkese del film Dopo la guerra. L’evento costituiva parte del «Made in Italy Festival: Arts + Cultures», una rassegna cinematografica curata dalla Professoressa Eugenia Paulicelli per l’Italian Cinema CUNY (IC-CUNY) e Queens College in collaborazione con The Graduate Center (http://iccuny.qwriting.qc.cuny.edu). L’obiettivo che l’Italian Cinema CUNY si proponeva con questo festival era quello di una comprensione ampia e complessa del cinema italiano dalle origini ai giorni nostri, attraverso l’incontro e il confronto con il corpus di professionisti, registi e accademici che da sempre si impegnano nella diffusione del cinema italiano nel mondo.
Dopo la guerra (Après la guerre), esordio alla regia di Annarita Zambrano, è stato presentato al Festival di Cannes 2017 in concorso in Un certain regard. Siamo a Bologna nel 2002: la legge che depotenzia l’articolo 18 è stata appena approvata ed è difesa davanti ai suoi studenti da un docente universitario, che subito dopo viene ucciso. Marco, ex-militante comunista, condannato per lotta armata e rifugiatosi in Francia da quasi trent’anni, grazie alla Dottrina Mitterand, è sospettato di aver commesso l’attentato. Decide perciò di darsi alla fuga insieme alla figlia di 16 anni…
Abbiamo avuto modo di approfondire alcune tematiche del film direttamente con Annarita Zambrano.
Perché questo soggetto nel 2017? Qual è, secondo lei, il lascito di quegli anni bui nell’immaginario delle generazioni che non hanno vissuto gli anni di piombo?
La mia domanda iniziale era «da dove nasce la violenza?». Non pensavo solo alla storia italiana e agli anni Settanta: ogni paese ha dei conti in sospeso da regolare e delle ferite da rimarginare. Anche per questo il film ruota attorno alla storia di due paesi, però la storia si sviluppa sostanzialmente nella sfera del privato. La politica comporta necessariamente delle conseguenze nella vita delle persone comuni. Volevo approfondire come agisce la ribellione nell’uomo, soprattutto in un contesto in cui molte bombe sono rimaste inesplose. Ora noi vediamo le ceneri della violenza che è passata. Io volevo cercare nel passato alcuni indizi per capire il presente. Dopo la guerra vuole essere un film certamente sullo scontro tra opinioni diverse, ma soprattutto sul concetto di colpa: i figli devono pagare le colpe dei padri? Si può parlare di colpa ancestrale?
Dopo la guerra narra di una storia politica, sociale o familiare? La famiglia spaccata a metà vuole essere metafora del Paese spaccato a metà?
Sicuramente sì, Dopo la guerra narra di un dramma umano, privato che trova spazio in un dramma più vasto, pubblico. È la storia di una famiglia che è inciampata nella Storia dei grandi e per questo paga una colpa privata e pubblica allo stesso tempo. Questa storia io l’ho studiata sui libri, non ne ho una conoscenza diretta. In compenso conosco i drammi privati che ne sono derivati. Ho voluto che tutte le parti italiane fossero girate negli interni, volevo comunicare l’idea di oppressione e l’impossibilità, per questa famiglia, di ricucire una ferita.
Ha scelto deliberatamente una protagonista, mi riferisco a Barbora Bobul’ová, non italiana e quindi slegata dagli eventi narrati?
Sì. Innanzitutto stimo moltissimo Barbara come attrice. E poi per questo suo essere fuori e dentro l’Italia non aveva preconcetti. Ho pensato che per le attrici italiane fosse difficile portarsi questo fardello: Barbara contrariamente ha uno sguardo diverso sul nostro paese.
Quali sono le fonti di ispirazione? Più che per il soggetto, per il taglio prospettico?
Ci sono diverse fonti dentro di me, anche se apparentemente c’entrano poco con il film. Per la struttura narrativa – è una referenza, non è sicuramente uguale – c’è qualcosa di Running on Empty di Lumet (1988). C’è Visconti nel dramma umano: la mia idea era fare un affresco viscontiano a partire dalla riflessione sulla colpa. Tantissimo James Gray, soprattutto per quanto riguarda gli “interni”: i temi della famiglia, della chiusura, dell’ineluttabilità delle cose che succedono, dell’incapacità di vedere quello che si ha di fronte. Ho scelto di trattare una famiglia borghese, perché questo ambiente lo conosco: sono cresciuta in questo ambiente che possiamo definire chiuso, di baroni, oppressivo. Sicuramente c’è il concetto pasoliniano della deriva culturale, in questo imborghesimento. Nella rappresentazione della borghesia c’è anche Antonioni, sto pensando a Le amiche o a Cronaca di un amore. Ci sono tanti altri film: quelli di Elio Petri (mio regista preferito), Bolognini, Rosi. Tutto il cinema che mi ha formato è con me. Volevo fare tutto con questo film, ma avevo a disposizione un’ora e mezza (ride ndr). Diciamo che ho fatto un film che mi sarebbe piaciuto vedere.
La scelta del finale aperto corrisponde alla volontà di non voler dare giudizi definitivi su una serie di eventi che sono (tuttora) considerati una ferita aperta nella storia della nostra democrazia?
Non ci sono giudizi definitivi ma sicuramente c’è una speranza. Da un lato, preferisco fare domande, non dare risposte. Dall’altro lato vi è una ferita impossibile da ricucire su più livelli: due lingue, due paesi, i personaggi si muovono su binari separati. Il personaggio di Marco ha distrutto la sua vita e quella della sua famiglia. È stata una scelta di onestà? Questi ex-terroristi hanno la coscienza del male fatto? Volevo fare emergere una riflessione sulla banalità del male: quando uccidi qualcuno politicamente e pensi che non sia degno di vivere, ti erigi e ti poni a un livello altissimo. Nella tradizione greca è il concetto di ubris, per cui a un certo punto devi necessariamente precipitare.
Può aggiungere qualcosa sulla morte del “terrorista”?
Il film inizia con un omicidio e immagini finirà con una morte: Orson Welles diceva che dalla prima scena si capisce tutto. Perché Marco muore? Non l’ho fatto morire io. Io ho costruito questo film come una tragedia che sta dentro a un cerchio. I personaggi capitolano necessariamente al centro del cerchio: il tempo che ci mettono ad arrivare al centro è dettato dal libero arbitrio. Marco va verso la sua morte da solo perché non guarda, è incapace di vedere persino sua figlia. Poteva nascondersi e basta, senza fuggire. Invece decide di rilasciare l’intervista, fondamentalmente perché sente ancora la necessità di esprimersi. Questa era la sua guerra. A questo punto è necessario chiedersi quale sia il prezzo della libertà. Viola, educata da Marco, si rivolta contro di lui e lo uccide.
Inoltre, volevo che Marco rientrasse in Italia come un oggetto. Lui stesso durante l’intervista riprende la celebre anonima frase della madre spartana che porge lo scudo al figlio: torna o con questo o sopra questo (Τέκνον, ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς). Marco torna sullo scudo e Viola ha un futuro davanti, autonomo, separato dall’epilogo del padre. Ho voluto sottolineare questo aspetto mantenendo le inquadrature separate: Viola e la famiglia di Marco non entrano nella stessa inquadratura sul finale. Per questo dicevo non ci sono giudizi definitivi, ma c’è una speranza.