Il Cuore a Gas

Lo spirito dadaista di Tristan Tzara è tornato a rivivere al Teatro Trastevere, con un approccio dinamico e irriverente al punto giusto

Roma, Teatro Trastevere, 4 Gennaio 2017
IL CUORE A GAS
di Tristan Tzara
regia: Andrea Martella

Personaggi ed interpreti:
Occhio: Flavio Favale
Bocca: Simona Mazzanti
Orecchio: Edoardo La Rosa
Naso: Vincenzo Acampora
Sopracciglio: Giorgia Coppi
Collo: Vania Lai
Didascalia: Walter Montevidoni

Dal 4 al 7 gennaio al Teatro Trastevere a Roma

INTRO: Il Cuore scaldato a Gas pulsa lentamente, ampia circolazione, si tratta dell’unica e della più grande truffa del secolo in tre atti”

Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buonsenso.
Da “Il Manifesto Dada” del 1918 di Tristan Tzara

Allorché il pubblico terminava di prendere posto, al Teatro Trastevere, per la prima dello spettacolo con cui si è voluto rendere omaggio alla disinvolta genialità di Tristan Tzara, ecco riaffacciarsi alla memoria ricordi di ciò cui avevamo assistito non molti anni fa, in occasione di uno spettacolo dalla carica parimenti dirompente: Stop. In the Name of Love: l’Orso, libero adattamento dell’opera di Cechov per la regia di Francesca Viscardi Leonetti, andato in scena al Teatro Sala Uno di Roma nel maggio 2011. All’epoca provammo a descrivere un approccio così personale al testo con queste parole: “…mentre gli attori già si aggirano in scena e tra gli spettatori che ancora prendono posto, ripetendo ossessivamente un gesto, un’azione, una posa, appartenenti all’universo del loro personaggio ma non necessariamente a quanto scritto nel testo. Sono “momenti privati” dell’attore solitamente non condivisi col pubblico, che così proposti creano da subito un diverso rapporto tra chi è in scena e chi assiste alla rappresentazione“. Suggerita l’analogia, veniamo ora alle differenze. La sfida lanciata da Francesca Viscardi Leonetti era poi proseguita, nel corso della rappresentazione, frammentando ulteriormente un testo teatrale dalla forma ancora tradizionale, scavando pertanto con piglio inusuale nelle inquietudini presenti in esso. Cosa ha tentato brillantemente di fare, dal canto suo, il regista Andrea Martella al momento di affrontare e riproporre la poetica del dadaista Tristan Tzara? Anche qui l’incipit sembra sottolineare i “momenti privati” degli interpreti. Occhio (Flavio Favale), Bocca (Simona Mazzanti), Orecchio (Edoardo La Rosa), Naso (Vincenzo Acampora), Sopracciglio (Giorgia Coppi), Collo (Vania Lai) si muovono a ridosso del palco mettendo in scena se stessi. Un po’ come automi. Ognuno legato metonimicamente a un oggetto, a una condizione. Ma quale forma di interazione è destinata a svilupparsi, tra loro?

Già dai nomi dei personaggi la surrealtà di fondo dell’opera di Tzara è evidente. E potrà dar luogo (e dar sfogo) a situazioni altrettanto assurde, paradossali. Rispetto all’altra rappresentazione teatrale che abbiamo testé introdotto, quale termine di paragone, il lavoro registico di Andrea Martella è consistito nell’oliare un meccanismo già pronto a sfociare nel nonsense, “lucidando” quindi dialoghi e interazioni fisiche così da lasciar cogliere, nelle loro increspature, il forte afflato anti-borghese che il testo di Tzara intende comunicare. Assieme a quella scomposizione del linguaggio che è di suo una forte dichiarazione di intenti. Ed è così che Il Cuore a Gas (messo in scena per la prima volta a Parigi nel 1921) ha cominciato a pulsare di vita propria, sul palco del Teatro Trastevere. Coadiuvato anche, paradosso tra i paradossi, dal personaggio che in questa versione il regista ha voluto introdurre quasi fosse il suo alter ego, un demiurgo capace di mediare tra l’apparente follia delle azioni disegnate in scena e la sensibilità degli spettatori: ovvero quella figura distaccata e sardonica ribattezzata Didascalia, cui Walter Montevidoni è sembrano aderire con naturalezza anche a livello fisico.

Da siffatta impostazione si è pertanto sviluppata, nei termini di cabaret sfrontato, lunare e impertinente, quella incontenibile sarabanda sostenuta a gran ritmo da attori parsi tutti molto preparati, in grado cioè di non perdere colpi né sul piano della verbosità tendenzialmente simbolica e astratta dei dialoghi, né su quello di una fisicità sollecitata di continuo da corse espressive ma estenuanti, così come da altri elementi di clownerie. Il tutto per dar vita a una rappresentazione frastornante la cui intrinseca comicità opera fuori dagli schemi, per portare a riflettere con leggerezza sui comportamenti assurdi e innaturali generati in noi dalle convenzioni borghesi.

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