TAPE#51, Kerouac in scena

Al Teatro Trastevere sulle tracce della “beat generation”, con un cast capace di generare emozioni!

 

Foto di Carlo Rondinelli
Foto di Carlo Rondinelli

Roma, Teatro Trastevere, 12 gennaio 2016

Di: Martina Tiberti
Regia: Raffaele Balzano
Con: Pietro Pace, Raffaele Balzano, Vania Lai, Giuseppe Mortelliti
Prodotto da: L’Associazione Culturale Teatro Trastevere in collaborazione con Un rigo sì e un rigo no
Date: dal 31 gennaio al 5 febbraio al Teatro Trastevere, via Jacopa de Settesoli 3, martedì-sabato h 21.00 – domenica h 17.30

INTRO: Ozone Park, New York, 1951. Jack Kerouac e Neal Cassady si chiudono in casa per un esperimento letterario indotto da vino e marijuana. Per ritrovare l’autenticità di una scrittura vera i due compagni di viaggio decidono di registrare per intero le loro conversazioni per farne dei racconti che riproducano la trama della realtà quotidiana. Ma il proposito si fa più complesso del previsto: l’uso delle sostanze stupefacenti e la natura goliardica dei personaggi compromettono il flusso dei pensieri che porta a scambi di battute vivaci, doppi sensi e confessioni che fino a quel momento non sembravano necessari.
Liberamente ispirato a Frisco: il nastro capitolo del libro Visioni di Cody, Tape#51 ripercorre le tematiche della poetica di Kerouac, dalla velocità beat di Sulla Strada alla solitudine buddista di Angeli di desolazione. Lo spettatore passerà una serata in compagnia dello scrittore americano, per arrendersi ai suoi giochi di parole, sognare corpo a corpo con le sue espressioni poetiche, eccitarsi con il ritmo veloce ed esagitato della narrazione.

Foto di Carlo Rondinelli
Foto di Carlo Rondinelli

Il palinsesto del Teatro Trastevere si sta rivelando una miniera di accattivanti proposte e di spettacoli intriganti sia nella forma che nei contenuti. Quando ci si pone poi sulle tracce della “Beat Generation”, trasporre un pizzico di trasgressione anche nel rapporto pubblico/attori non fa certo male: mentre gli ultimi spettatori stanno ancora facendo il biglietto e gli altri attendono l’accesso in sala, ecco irrompere nell’atrio due degli interpreti, Vania Lai e Giuseppe Mortelliti, intenti a fare baruffa coi loro abiti un po’ vintage, che già ci proiettano in una cornice americana di qualche decennio fa. Più che identificarle come piccole trasgressioni, dovremmo forse chiamarle “innocenti evasioni”. Evasioni, sì, ma dalla scena! Il loro battibeccare avrà poi un esito sconvolgente in sala, a spettacolo “formalmente” iniziato, trasformandosi pertanto in uno dei più morbosi aneddoti che i due protagonisti della rappresentazione, ovvero Pietro Pace (a.k.a. Jack Kerouac) e Raffalele Balzano (a.k.a. Neal Cassady), cominciano a scambiarsi sul palco.

Foto di Carlo Rondinelli
Foto di Carlo Rondinelli

Nientepopodimeno che le vite fuori dagli schemi e il forsennato processo creativo di due grandi ribelli della letteratura americana, quindi, al centro di uno spettacolo che fagocita con naturalezza sogni, paure, illusioni, fermenti nuovi e il latente desiderio di battere percorsi diversi sperimentando con le parole, a testimonianza di un’epoca fatta di aspri contrasti come anche di libertà da conquistare strada facendo. In TAPE#51, Kerouac in scena il vibrante testo approntato da Martina Tiberti sa cogliere bene tali tensioni, mettendo in bocca a Kerouac e Cassady (nonché ai due personaggi che, a più riprese, interagiscono con loro) quei dialoghi da cui emergono la volontà di osare sul piano formale e un frustrante senso di inadeguatezza, il lasciarsi andare a un regime di vita scapestrato, neanche troppo velatamente autodistruttivo, ed il comprensibile timore delle conseguenze. Gli attori, dopo qualche scena più incerta che a loro sembra servire quasi da “riscaldamento”, sono poi bravi a lasciarsi andare, a farsi fagocitare dal “mood” così particolare del testo. In particolare Pietro Pace, qui nei panni di Jack Kerouac, che col suo personaggio parrebbe avere persino una qualche adesione fisiognomica, a riguardare oggi certe fotografie in bianco e nero del discusso autore statunitense. E non a caso l’apice della rappresentazione si raggiunge, a nostro avviso, nella scena in cui lui prova a tradurre concitatamente nel suo linguaggio i contenuti di un lungo racconto del sodale Neal Cassady. Ulteriore esempio di come lo spettacolo, curato anche in quegli essenziali elementi scenografici tesi a ricostruire un’atmosfera datata, retrò, sappia rievocare in modo semplice e diretto quel clima e quelle relazioni umani così distanti nello spazio, e nel tempo.

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