È disponibile sul mercato italiano Michael Moore in Trumpland, l’ultimo documentario del regista statunitense già autore di Fahrenheit 9/11 e Bowling a Columbine. Presentato e atteso come un film anti Trump, l’ultima fatica di Moore è in realtà un monologo registrato nel Murphy Theatre di Wilmington, Ohio, nella contea di Clinton. In questa parte d’America Trump è il preferito degli elettori (si contano solo 500 democratici su 25mila aventi diritto) e, sebbene per uno scherzo del destino la contea si chiami Clinton, siamo nel regno di Trump, in Trumpland. Michael Moore sceglie appositamente un luogo come questo per parlare ad una platea mista tra elettori democratici e repubblicani (pochi i repubblicani) e spiegare perché alle prossime elezioni dell’8 novembre è giusto votare per Hillary Clinton.
Siamo nella coda di una campagna elettorale spietata, assurda, insidiata dai russi e puntellata dall’FBI, in cui il tornado Trump si appresta a spazzare via ogni briciolo di establishment rimasto in piedi, compresa la sua voce prediletta, Hillary Clinton. Il film viene presentato a gran sorpresa il 18 ottobre, alla vigilia dell’ultimo dibattito presidenziale prima delle elezioni, al cinema d’essai IFC Center di New York. I fan di Moore si accalcano ai cancelli già dalle 4 del pomeriggio, le cronache americane descrivono un clima quasi carnevalesco, tra megafoni e cartelli luminosi. Ma chi si aspetta il documentario-bomba in stile Moore rimarrà deluso.
Il film-monologo nasce come un’urgenza, lo spiega lo stesso regista: “ero in Inghilterra durante la settimana della Brexit per promuovere il mio ultimo film. Tutti i sondaggi dicevano che non sarebbe avvenuta, ma si sbagliavano”. Moore ha paura che si ripeta uno shock simile negli Usa, quindi arrangia in quattro e quattr’otto due spettacoli teatrali negli stati trumpiani, filma il monologo, completa il montaggio quando manca un giorno alla premiere e consegna il film alle sale cinematografiche già dal 19 ottobre. Una produzione-razzo che richiede solo due settimane di lavorazione. Con il senno di poi, si può affermare che il timore di Moore era più che fondato. Eppure tra gli osservatori della stampa americana c’è chi lo accusa di essersi fatto prendere dalla strizza troppo tardi: impossibile che due spettacoli di Moore possano effettivamente influenzare l’elettorato, notano dal Guardian. E se qualcuno si attende un elenco di tutti difetti di Trump (che non sono pochi), si troverà ad assistere a uno spettacolo che di Trump dice poco.
Il monologo infatti non è anti-Trump, ma pro-Clinton. Moore chiarisce sin dall’inizio che non è un elettore della Clinton (alle primarie democratiche ha votato per Bernie Sanders), eppure crede che sia necessario fare uno sforzo ed elencare gli aspetti positivi di una candidata Presidente che durante la campagna elettorale è stata odiata dai suoi detrattori. Non semplicemente contrastata, ma odiata, letteralmente. Come se Hillary Clinton avesse fatto uno sgarbo personale ad ognuno di quei cittadini che non hanno votato per lei. Un fenomeno che ha portato la stessa Clinton a riflettere, dopo la sconfitta, sul fatto che “perdere contro Trump è stato qualcosa di diverso. Se avessi perso contro un candidato repubblicano sarei stata delusa, certo. Ma quello che è successo durante questa campagna elettorale è stato diverso. E sono stata la prima a sperimentarlo”.
Hillary Clinton è stata la prima in tante cose, come lo stesso Michael Moore ricorda nel corso dello spettacolo.
Prima first lady ad entrare alla Casa Bianca come madre e lavoratrice, prima a ricoprire una carica pubblica durante il mandato da first lady (fu senatrice per lo Stato di New York), prima candidata Presidente degli Usa. Era la prima anche in classe, quando frequentava il college. Per non parlare dell’associazionismo e dell’attivismo politico, in cui è sempre stata la prima donna a far questo o quell’altro. Quando il marito Bill era governatore dell’Arkansas, lei era già uno degli avvocati più potenti d’America. In realtà è arrivata prima anche in quest’ultima competizione elettorale, ottenendo, nel voto popolare, circa tre milioni di preferenze in più rispetto a Donald Trump. Ma ha perso fra i grandi elettori dei collegi e, per il funzionamento del sistema elettorale americano, ha dovuto rinunciare alla Presidenza.
Questa collezione infinita di primati non sono piovuti come manna dal cielo tra le braccia di Hillary Clinton. Anzi. La sua è stata una lotta estenuante e continua. Racconta Moore: “ricordo che quando era first lady, veniva continuamente presa di mira da tutti. La prendevano in giro per il comportamento, per come si vestiva. Ero davvero infastidito da questo trattamento, non credo lo meritasse”. Moore scrive di lei in quegli anni nel libro Adventures in a TV Nation, dedicandole un intero capitolo: “Il mio amore segreto per Hillary Clinton”. I Billary lo invitarono ufficialmente alla Casa Bianca per ringraziarlo. Insomma Moore vedeva in Hillary una donna tosta e capace, sebbene le scelte politiche da lei effettuate successivamente non trovassero l’appoggio di Moore e di molti elettori democratici. Su di lei pesano il sostegno alle missioni militari in Iraq e in Libia, la poca trasparenza della Clinton Foundation, l’appoggio della famigerata Wall Street, il cognome del marito.
Ma, dice Moore, “dobbiamo fare uno sforzo e trovare i lati positivi di Hillary. Dobbiamo cercare di trovare gli aspetti positivi di tutti. Potrei addirittura dirne qualcuno di George Bush: ama i suoi cani, per esempio!”. Così tra sketch ilari e momenti di autentica sincerità, Moore ripercorre la biografia umana e politica della first lady più influente e controversa d’America dopo Eleanor Roosevelt. Quando il marito Bill si candidò per la prima volta a governatore dell’Arkansas, i Clinton erano già sposati. Lei aveva deciso di conservare il cognome da nubile, Hillary Rodham. Bill perde le elezioni, ma le accuse piovono su di lei: se avesse rinunciato al proprio cognome per prendere quello del marito, allora Bill Clinton sarebbe divenuto governatore. Quella era l’America di quegli anni, il modo in cui la società trattava le figlie femmine. Così Hillary rinuncia al suo cognome e va avanti.
Moore dice di aver beccato una fotografia di Hillary con i primari di ginecologia di un ospedale estone, dove lui si trovava durante le riprese di Sicko, il docu-film che svela le brutture del sistema sanitario americano. La foto di Hillary con i medici in Estonia risale agli anni ’90, quando lei da senatrice stava preparando una riforma del sistema sanitario che poi verrà bocciata dai franchi tiratori del Congresso. Era arrivata fino in Estonia per poter scrivere la sua riforma, vedi mai che si trovasse impreparata.
Donna, lavoratrice, iper qualificata e soprattutto “tosta”. “Se Hillary diventasse Presidente quelli dell’Isis se la farebbero addosso!”, scherza Moore. Già se la immagina piombare in mimetica in un covo dell’Isis e sparare all’impazzata. E cerca di prevedere il brivido che corre lungo la schiena quando gli Stati Uniti eleggeranno per la prima volta una donna alla Casa Bianca.
Sappiamo com’è andata a finire.
Forse ha ragione la stampa americana, Michael Moore è arrivato troppo tardi. Forse Donald Trump andava combattuto da subito, dal momento della sua candidatura. Perché Trump non è altro che l’urlo morente dell’uomo bianco, dice Moore, una specie che si estinguerà come i dinosauri. Non è altro che “il più grande vaffanculo della storia”, urlato da cittadini che “usano matita e scheda elettorale come mezzo di gestione della rabbia”. E, forse, non bastano le qualità personali di un candidato politico per far dimenticare tutte le decisioni sbagliate prese nel corso degli anni. Hillary agli occhi degli americani è stata un politico falso, figlia prediletta dell’establishment. Una dinastia, i Clinton, che molti americani vorrebbero si estinguesse. Come i dinosauri.