TITOLO: Elle
REGIA: Paul Verhoeven
GENERE: Drammatico/Thriller
CAST: Isabelle Huppert, Alice Isaaz , Anne Consigny, Charles Berling, Christian Berkel, Jonas Bloquet
PAESE: Francia, Germania, Belgio
SCENEGGIATURA: David Birke
FOTOGRAFIA: Stéphane Fontaine
ANNO: 2016
DURATA: 130 Min
TRAMA: Michelle Leblanc (Isabelle Huppert) è la ricca proprietaria di una azienda che produce videogiochi. Ha un carattere duro, orgoglioso e dominante. Dai suoi dipendenti pretende solo il riconoscimento del suo potere. Vittima di un stupro, non denuncia l’accaduto e continua la sua vita come se nulla fosse accaduto, finché lo stupratore non torna a manifestarsi.
“Elle” è il film del regista olandese Paul Verhoven (quello di “Basic Instint” per intendersi) basato sul romanzo “Oh…” dello scrittore Philippe Djian. Siamo nel cuore della borghesia parigina, una classe sociale in cui il concetto di libertà vive sempre sul labile confine tra istinti perversi e chiusure dovute alla morale e al rispetto delle apparenze. Lo aveva raccontato, in maniera sublime, molti anni fa il maestro Stanley Kubrik con “Eyes Wide Shut”, oggi Verhoven tenta di riportare il tema a un suo snodo: chi è veramente libero?
Tra chi dà la caccia a giovani sempre virili e chi tradisce senza pietà per l’amicizia, il benessere diffuso sembra aver “congelato” il concetto di stesso di comunità: ognuno prende quello che vuole e come può, anche con lo stupro. L’importante è che lo si faccia conservando le buone maniere ed abitando in case arredate con gusto sotto i consigli degli architetti alla moda. Ipocrisia e finto perbenismo proiettati alle estreme conseguenze.
Il film vale molto per merito della sempre elegante Huppert che, anche grazie al suo aspetto fisico, restituisce le sembianze di una donna elegante e ambigua, “naturalmente” antipatica e seducente come poche quando, proprio nel momento dello stupro, appare nel suo viso un ghigno, o forse un vero e proprio sorriso. Un’interpretazione degna de “La Pianista”, se vogliamo spingerci in paragoni attinenti alla stessa carriera dell’attrice francese. La morbosità del suo personaggio aumenta quando, invece di rivolgersi alla polizia, la Huppert decide di mettersi alla ricerca del possibile colpevole. Ma non è la sete di giustizia a guidarla, bensì pulsioni sessuali che per troppo tempo erano rimaste sopite sotto gli alibi perfettamente celati della manager di ferro.
L’intreccio di storie che si crea con ognuno dei personaggi avrebbe forse meritato un approfondimento diverso, tuttavia la narrazione alterna momenti thriller a scene dall’alto contenuto erotico, sfiorando anche commedia e noir a seconda delle situazioni che si vanno man mano creando. Lo spettatore non è mai completamente spiazzato dal succedersi degli eventi, ma la personalità complessa e perversa di Michelle fanno da traino a una storia che resta ambigua e perversa.
Probabilmente, nulla aggiunge al film il passato oscuro di Michelle (figlia di un padre che ha ammazzato decine di persone). La reazione della protagonista allo stupro (si rialza impassibile, si ripulisce dal sangue e poi ricomincia la sua vita di imprenditrice di successo) crea abbastanza scandalo allo spettatore, senza che le scelte “incoerenti” della protagonista debbano essere ricercate necessariamente in un trauma del passato. Alla fine la domanda-scandalo che il regista si pone è: dello stupro si può godere? È quello che il film porta a scandagliare attraverso le scelte di Michelle, che va a ricercare, “freddamente” si direbbe, quella pulsione animalesca e violenta. Attraverso la maschera della protagonista, la Huppert gela lo spettatore in questa folle ricerca, lasciando trasudare le sensazioni e le immaginazioni con espressioni velate e mai didascaliche. Una grande prova da attrice.