GITA A SOLOPACA

Seconda puntata del nostro racconto

In paese si era sparsa voce dell’arrivo dei tre. Era strano veder arrivare dei giovani in un posto dove di solito i giovani partono sempre. Germania, Nord Italia, Napoli, Roma, Svizzera, ognuno cercava di svincolarsi dall’ancestrale contratto con questi luoghi. I ragazzi del posto davano l’impressione di oscillare deliberatamente in uno spazio teso al risparmio energetico: avevano forza da vendere ma la sprigionavano lontana dal paese. Sì inventavano altrove, e dopo aver dato sfogo alla loro energia in un altro posto, rientravano a casa per le ferie riabbracciando l’inerzia nel posto che più di tutti abbisognava di un po’ della loro forza. Mettevano in atto una sorta di ripicca inconsapevole: mantenevano distacco dalle questioni riguardanti la loro terra, come se occuparsene li distraesse da ciò che avevano deciso di diventare. Pensavano di valere molto di più della loro terra. V’era tempo per tutto, ma non per le radici; quello sarebbe stato tempo sprecato. Forse più che di un’altra terra erano in cerca di un altro animo, ma a volte cambiare terra non basta a cambiare animo. E mentre il paese rubava loro un po’ di giovinezza, essi continuavano il risparmio e senza saperlo gli rubavano l’eternità. Bisogna stare attenti al gioco delle sottrazioni, spesso diviene mutua condanna.

Per Carla non esistevano paesi grandi o piccoli, generosi o avari. Lei guardava il cielo e in esso riservava insieme domande e risposte. Non c’è nulla di male a guardare il cielo e a interpellarsi posando gli occhi sull’immensità. Per farlo bisogna solo essere mediamente più forti degli altri perché si ha a che fare con scale di grandezza troppo elevate e il rischio è quello di diventare capaci di farsi carico di ogni massa in transito. Rischio alto perché sulla terra non ci sono santi, e forse neanche in cielo.

Quella mattina Carla aveva deciso la prima gita del gruppo, sarebbe stata a Solopaca, un paese che si trovava esattamente dall’altra parte della montagna. Solo dieci kilometri di strada ma il tempo di percorrenza faceva pensare che fosse più lontano. La strada che collega Solopaca a Vitulano è tortuosa e costringe a passare all’interno del Parco del Taburno dove non è raro incontrare diverse specie di animali che invadono la strada. Era un pomeriggio febbrile e una volta entrati in macchina i tre si erano accorti della stessa farfalla ancora ferma sul parabrezza. Com’era possibile che un esserino così leggero fosse potuto sopravvivere al calore sviluppatosi nell’abitacolo parcheggiato al sole? Antonio aveva provato a toccarla, era viva! Come se il tempo all’interno dell’auto si fosse fermato. Antonio aveva detto “Chissa quanto lontano riusciamo a portare questa farfalla. Credo che le farfalle facciano pochissimi chilometri nel corso della loro vita, noi potremmo portarla in giro ad oltranza e farla diventare una farfalla da record!”

Carla ribattendo disse “Mi spiace deluderti Antò ma ci sono alcune farfalle in grado di percorrere tantissimi chilometri, non sarebbe un record portarla a spasso per tutta la provincia!” La considerazione di Carla era esatta. Restava il fatto che Antonio si aspettava un po’ più di entusiasmo sulla questione, del resto portarsi dietro una farfalla era sì una stranezza, ma anche il genere di metafora per cui valeva la pena essere stravaganti.

Alice se ne stava invece rannicchiata sui sedili posteriori, non era stato facile dormire dopo il presunto spionaggio notturno di Santo. Le era stato concesso di riposare senza essere presa in giro. Ad Antonio lo spionaggio di Santo sembrava plausibile: per quale motivo Alice avrebbe dovuto mentire? Per allertare tutti? Difficile. Carla invece conosceva Alice piuttosto bene e sapeva che in lei pulsava un ritmo silenzioso, simile a quello delle catastrofi naturali: sordo, latente e vigile allo stesso tempo, forse tanto vigile da poterla suggestionare.

I tre giunsero a Solopaca, un paese che deve la sua notorietà alla produzione di vino. Si presentava come un lungo corridoio ai piedi del Taburno e camminando per le strade la conta dei dislivelli dava l’impressione di percorrere la scheletro isolato di qualche assurdo animale preistorico. Il paese si presentava snello, smunto, allungato e ogni tanto qualche campanile spuntava fuori dalla schiera di case. Era disseminato di palazzi d’epoca ma pochi erano quelli restaurati a dovere, motivo per cui questo agglomerato oblungo assumeva una connotazione piuttosto decadente. Eppure, nell’aria circolavano le spoglie di una ricchezza irrisolta, inafferrabile; tanto che tutti vivevano la propria vita sentendo di appartenere a una sorte più grande, non alle misere vicissitudini nazionali e internazionali, ma al destino del sole che scalda le terre, dell’acqua che riempie le gole, del vento che sfiora tutto. Solopaca, data la sua conformazione, era capace di veicolare ogni cosa: la corsa del vento, il flusso d’acqua, l’alternanza di luce e ombra, il viavai dei compratori di vino, le partenze dei giovani.

Sulla strada verso il Palazzo Ducale Carla si accorgeva che il posto assomigliava a un vettore “tutto sembra fatto per scorrere via, niente fatto per stagnare”. Antonio annuiva. Cercava traccia di tutto il vino prodotto, ma quello che era un motivo di vanto nazionale non lasciava alcuna traccia in paese. Forse anche i preziosi vigneti nascevano belli e si risparmiavano come si risparmiavano i ragazzi, caricandosi di energia destinata all’altrove. Vigneti profumati e distesi ordinati sui declivi, un mare verde disposto a bagnare terre lontane.

Alice se ne stava in silenzio. Camminava davanti agli altri ma il suo orecchio era teso alla conversazione. Sembrava connettersi di più col vivente, con la luce, coi personaggi. E mentre gli altri due analizzavano la scenografia, lei cercava qualche viso da incrociare e spesso il viso era quello di uno dei tanti cani abbandonati. Carla e Antonio facevano più attenzione alla struttura -quindi case, campanili, negozi, macchine e insegne- mentre Alice era attratta da ciò che respira. Forse Carla e Antonio nel loro modo di osservare celavano il bisogno di fissità tipico di chi vuole istituire i palazzi delle proprie idee. In Alice invece niente doveva essere istituito o fabbricato da chissà quale memoria; tutto appariva chiaro e sconosciuto insieme: uno sfregio ai simboli e un inno al presupposto.

Era ormai tardo pomeriggio e il vento cominciava a rinfrescare l’aria lasciando un olezzo speziato all’interno del Palazzo Ducale. Un ragazzo addetto aveva cominciato a chiudere le imposte, come se gli ordini dall’alto fossero quelli di trattenere chiusi nel palazzo le squisite fragranze portate dal vento. Era un soffio fertile e ferroso che aveva un retrogusto di legna d’olivo appena tagliata.

“Bello eh, di dove siete?” Disse il giovane addetto.

“Siamo di Roma” risposero i tre quasi all’unisono.

“In realtà io abito a Tivoli” ammise Carla, “sicuramente la conosci perché ti hanno portato a Villa d’Este in gita scolastica” aggiunse.

“E invece mi dispiace dirti che non ci sono mai stato. Piuttosto a voi cosa vi porta qui? Questo paese non ha molto da offrire”.

“Ah sì? E allora tu cosa ci fai qui” ribatté ironico Antonio.

“Mi sto preparando per un colloquio di lavoro importante, aspetto solo di superarlo e andarmene a Padova”

A quel punto Carla si dimostrò interessata alle sorti del giovane “e in che campo?”

“Io ho studiato fisica. C’è un’azienda molto importante che necessita di giovani laureati e io sono uno dei candidati” disse il giovane.

L’interesse di Carla era sincero, era felice che quel paese potesse nascondere giovani appassionati alle scienze.

“Come ti chiami” chiese Antonio.

Lui “Mi chiamo Davide, piacere”.

Nel frattempo le collinette, la montagna, i vigneti si imbevevano di luce dorata e la stanza illuminata dagli imponenti finestroni si risolveva in un aroma antico di borgo. Quel sole generava una scala di colori che aveva del mistico: i suoi riflessi erano violacei, dorati, rossi e grigiastri allo stesso tempo. E dalla stanza del palazzo era possibile ammirare un ampio panorama che unito alle vesti nobili di quella luce solare donava a questo angolo di Meridione un fugace capriccio boreale. Non era una luce normale quella che si rifrangeva sui finestroni, in quella luce v’erano anni di silenzio.

“È vero, in queste zone non c’è molto se non sai osservare. Anzi direi che questi luoghi sono fatti solo per chi sa osservare, meglio ancora se verso l’alto” disse Carla.

“Lei è un’astrologa, forse non andrà mai su Marte, ma di osservazioni se ne intende, puoi starne certo” intervenne Antonio.

“Che bello, complimenti” disse Davide e poi aggiunse “mi piacerebbe approfondire, ma purtroppo devo chiudere il palazzo e mi ci vorrà ancora un po’. Immagino che stiate già andando via, d’altronde quale motivo avreste per rimanere?”

“Il tramonto” rispose Alice.

Antonio Alberto Di Santo

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